Ci convinciamo così fervidamente all'idea che i nostri idoli siano scevri da difetti e insicurezze, da credere a tale pensiero rendendolo reale; e più tale illusione si concretizza, più i nostri idoli si fanno essenze eteree, irreali, simboli di apparente perfezione e modelli da seguire, o emulare. Poi arriva quella notizia sbattuta in prima pagina, ed ecco che la realtà ci riporta sul pianeta Terra, distruggendo come castelli di sabbia mangiati dal mare, quegli ideali a cui ci eravamo così ostinatamente aggrappati. Abbiamo bisogno di un modello di perfezione a cui ispirarci, e quando questo rivela la propria umanità, lasciandosi conquistare dall'inebriante e deleterio sapore dell'alcol, o dall'anestetizzante potere delle droghe, che tutto muta, lasciandoci traditi e disillusi.
Come sottolineeremo in questa recensione di Robbie Williams, disponibile su Netflix, il cantante di Stoke-on-Trent ha vissuto una, due, tre vite. Ha scoperto il successo e l'ombra che lo avvolge; si è lasciato ammaliare dal canto suadente della trasgressione, dell'alcol e delle sostanze stupefacenti, colando a picco. Si è poi rialzato, lasciandosi nuovamente baciare dalle urla dei fan e dal plauso della critica. "Principe del pop" lo hanno definito negli anni Duemila; e come tale Robbie Williams scrutava il mondo dall'alto del proprio ritrovato successo. Un castello dorato, il suo, pronto però a inabissarsi nuovamente, come un nuovo Colosso di Rodi. La docu-serie diretta da Joe Pearlman non vuole essere un trattato elegiaco; nessuna pacca sulla spalla, o mesta rivalutazione retorica: sospinto dal ricordo in prima persona dello stesso cantante, ogni frammento di quel puzzle del passato viene indagato, rivisto e rivissuto, tra la luce della ribalta e il buio dell'oblio interiore.
Lanciato da un prologo dinamico, martellante, montaggio psichedelico di inquadrature raccordate a un ritmo rapidissimo, che vuole riflettere lo stato mentale di un Robbie Williams in stato confusionario, Robbie Williams si fa confessione in quattro episodi di un'esistenza tra palco e backstage vissuta a una velocità da Formula Uno. Un racconto sincero, senza filtri o giustificazioni, dove lo scorrere di filmati di repertorio sullo schermo di un MacBook diventa un portale di accesso su un passato dimenticato, o del tutto rimosso, adesso pronto a essere recuperato e rivissuto. E così Robbie Williams non solo intende intrattenerci, ma anche colpire, schiaffeggiare, denudarsi come nel video di Rock DJ fino a mostrare il suo lato più umano, lasciando il canto da parte, per affidare al peso delle parole il dolore del ricordo.
Let me confess you
Cosa c'è di più intimo di un letto? In quello spazio ci lasciamo cullare dal sogno, o distruggere dagli incubi. Chiudiamo gli occhi vagando con l'immaginazione, o ripescando memorie tenute nascoste alla luce del giorno. Ed è proprio su quel materasso, appoggiato a un cuscino, che Robbie Williams si lancia a perdifiato nella galleria dei ricordi. Ogni pezzo di questo foud-footage è una chiave che (ri)apre un cassetto della memoria; sono momenti mai banali, del tutto inediti, che portano il cantante a toccare parti di vita vissuta e riconosciuta solo in parte. E così, video e interviste rimaste indelebili nella memoria dei fan, vengono solamente suggeriti, o del tutto ignorati, a favore di altro materiale meno conosciuto, meno noto.
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Feel the home that I live in
Corre su un percorso solo apparentemente semplice e lineare, Robbie Williams. In realtà quello compiuto dal regista e dallo stesso protagonista è un viaggio pieno di tornanti e intervallato da continui saliscendi emotivi dalla portata tanto sincera, quanto commovente, ma mai patetica o retorica. Ed è pertanto interessante notare come Pearlman si ponga alla guida di tale macchina mnemonica affidando tutto il comparto sentimentale ed emotivo a due tipologie di inquadrature ben precise: un primo piano sul volto di Robbie Williams, e una ripresa ristretta atta a isolare il dettaglio di mani quasi sempre intrecciate tra loro. Occhi e mani: anima e corpo di un'emozione di tenerezza verso quel Robbie del passato, mista un senso di disagio e vergogna per ciò che ha compiuto, detto, senza magari volerlo davvero, o essersene reso conto.
In quelle mani incapaci di stare ferme, che si chiudono in pugni stretti, o che grattano nervosamente la propria pelle, si percepisce in maniera quasi tangibile il dolore per qualcosa che poteva essere, ma non è stato, ma che comunque lo ha portato a essere l'uomo che è ora. Sono le mani a rivelare ciò che la bocca non riesce a proferire; mentre sono gli occhi lo specchio di una mente che rimuove, recupera e rivive attimi di debolezza, di paura, traumi e depressione. Il corpo di Robbie Williams si fa pertanto proiettore fisico su cui lasciare scorrere parti di un trattato sulla salute mentale tenuto nascosto per anni, e ora pronto a essere condiviso con altri, così da scuotere l'opinione pubblica, sottolineando l'importanza di tale argomento con eleganza, e umana onestà.
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Nobody Someday
"I cannot be nobody, because I'm somebody". Non posso essere nessuno perché sono qualcuno; e Robbie Williams è stato, ed è tuttora, qualcuno: è una stella della musica che ha illuminato il cammino di molti, intrattenuto le giornate di tanti, fatto danzare e fatto piangere; un successo barattato con dolore, depressione, curiosità morbosa di una società dell'immagine che brama per avere tra le mani un pezzo dell'idolo del momento (quel "Piece of Me" cantato anche da Britney Spears). Con un ottimo gioco di montaggio, in quattro episodi il regista riesce a restituire la portata inedita del Robbie Williams uomo, tralasciando quella del Robbie Williams cantante. Un faccia a faccia diretto tra il Robbie di ieri e quello di oggi. Per quattro episodi non compare nessun altro testimone a interferire nel processo di recupero dei ricordi e del loro commento pseudo-simultaneo. Davanti allo spettatore c'è solo il Robbie di oggi, un Robbie più maturo, che guarda e critica come un giudice spietato, le azioni e i pensieri del Robbie di ieri. Nessuna sedia su cui sedersi; poche domande a cui rispondere: solo un letto su cui stendersi e un portatile da guardare. Una scelta che enfatizza il senso di intimità e immediatezza del racconto; e anche quando comparirà Ayda - moglie del cantante - e gli inserti di un Robbie rinato, colto a girovagare per la propria casa, si faranno sempre più intensi e quasi pomposi, le cose non muteranno, sebbene finiscano per perdere leggermente di forza.
Per tutti e quattro gli episodi le distanze tra pubblico e Robbie si abbassano fino ad annullarsi, e il processo di affezione si innesta, recuperando quella vicinanza andatasi scemando nell'ultimo periodo, così da recuperare quel senso di affetto, o sensibilità, per quell'intrattenitore che ha donato alla musica i suoi fantasmi, e dai suoi fantasmi adesso tenta di liberarsi affrontandoli di petto guardandoli in faccia. E così risalire, "for Eternity".
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Robbie Williams sottolineando come il documentario diretto da Joe Pearlman e disponibile su Netflix, riesca a colpire a fondo lo spettatore indagando le cadute e le risalite di un'anima fragile come quella del cantante ex Take That. Tralasciando i successi musicali e una carriera folgorante, il documentario preferisce concentrarsi sulle difficoltà di Williams nel gestire la propria fama, tra doghe, depressione e insicurezze. Il tutto tenuto insieme dallo stesso protagonista, giudice e critico di se stesso, pronto a rivivere esperienze rimosse, e momenti delicati, attraverso un montaggio dinamico di video inediti e registrazioni immortalanti attimi di umana fragilità nel corso di trent'anni di backstage.
Perché ci piace
- La scelta di puntare sul Robbie Williams uomo, tralasciando il racconto del Robbie Williams cantante.
- L'uso di materiale del tutto inedito.
- La narrazione affidata al racconto in prima persona dello stesso cantante.
- L'uso del primo piano e il dettaglio delle mani.
Cosa non va
- La testimonianza della moglie che dona un che di melenso a un racconto duro e crudo.
- Gli inserti quasi epici di un Robbie Williams colto nella propria casa, che fanno perdere di mordacia alla storia.