"Grazie del promemoria". Parola di Riz Ahmed, protagonista di Dammi, cortometraggio diretto da Yann Demange disponibile dal 12 luglio su Mubi. L'attore interpreta un giovane uomo che, dopo un periodo passato altrove, ritorna a Parigi. La città in cui è nato e in cui si impegna alla ricerca di un legame con il padre con cui ha perso ogni contatto (Yousfi Henine). Una delle prime battute pronunciate dal personaggio è: "I am an observer". Impossibile quindi non domandargli se, vista la sua professione, anche lui si consideri un osservatore.
"È interessante, perché l'osservazione richiede che tu ti fermi", sottolinea Ahmed. "Richiede di guardare in alto, di alzare lo sguardo dal telefono, dal tuo ombelico. E penso sia sempre più difficile farlo di questi tempi. È più difficile uscire dalla lavatrice delle nostre menti, dei nostri programmi, delle liste di cose da fare e delle ansie. Perché ovviamente questi telefoni ci incoraggiano a vivere per sempre in questa centrifuga. È una domanda che mi ispira molto perché mi ricorda che questa è una parte così importante di ciò che significa creare ed essere un essere umano. È osservare, essere presenti, ricevere e apprezzare. Eppure a volte, devo essere sincero, spesso mi ritrovo a non prendermi il tempo per osservare. Che si tratti dei miei pensieri o del mondo intorno a me, mi ritrovo gettato nel corpo a corpo. È bello cercare di essere partecipe alla vita e non solo un osservatore. Penso che ci sia un tale senso di prospettiva e un tale senso di chiarezza che può arrivare a tutti noi se siamo in grado di sederci e osservare. Che si tratti di noi stessi o degli altri".
Una storia di appartenenza e di non appartenenza
Dammi è un lavoro estremamente personale. Scritto da Yann Demange insieme a Rosa Attab, il corto ha una forte valenza autobiografica. Ma Riz Ahmed, londinese di origini pakistane, nel corso della sua vita si è mai ritrovato nelle domande che attanagliano il suo personaggio "Assolutamente. Posso relazionarmi con l'esperienza del mio personaggio, anche se non letteralmente. Quest'esperienza è tratta dalla vita di Yann, dalla sua storia molto personale di appartenenza e non appartenenza. Ed è così personale che suo padre interpreta il padre del mio personaggio nel corto. E io ho interpreto Yann", confida l'attore.
"Ma penso anche che, poiché è attratto da qualcosa di così specifico per la sua esperienza, inizia a trascenderla e tutti noi possiamo ritrovarci in essa. Sicuramente ho attraversato periodi della mia vita in cui non ero sicuro esattamente a quale posto appartenessi o chi sono nel profondo. Ed è interessante notare che esplorare nuovi posti e nuovi ambienti a volte può aiutarti a esplorare lati diversi di te stesso. E penso che il film parli di questo. Penso che molte persone stiano cercando un'identità e un senso di appartenenza proprio ora che il mondo diventa più complicato e talvolta anche più diviso".
Yann Demange, parigino classe '77, in Dammi non si limita a mettere in scena un racconto dallo stile lineare, ma gioca con l'onirico e il surreale per regalare un'esperienza di visione molto più profonda e stratificata. "È stato davvero bellissimo poter entrare in contatto con un vecchio amico e lavorare insieme", racconta Ahmed.
"Ci conosciamo da molti anni, ma non abbiamo fatto niente insieme dai tempi di Dead Set nel 2007, il primo progetto di Charlie Brooker. Credo che uno dei veri doni di lavorare con un collaboratore fidato sia che ti permette davvero di sentirti libero. Senti di lavorare senza giudizio. Quando lavori in uno stato di fiducia, puoi giocare e ti senti libero. Penso che sia stato davvero importante per Yann lavorare con qualcuno di cui si fida in una storia così personale. E personalmente preferisco sicuramente lavorare con qualcuno di cui mi fido quando mi viene chiesto di passare ore e ore in una vasca di acqua gelida a Parigi, dove non puoi respirare e vedere nulla (ride, ndr)".
Tra identità e migrazione, outsider e zone grigie
Nei diciannove minuti della sua durata Dammi, presentato in anteprima mondiale al festival di Locarno 2023 e in anteprima nordamericana al Toronto International Film Festival, affronta tematiche che fanno parte del dibattito sociale odierno. "Penso che il corto esplori l'identità e la migrazione in un modo davvero vulnerabile e intimo. Un modo in cui tutti possono identificarsi perché attraversiamo così tante migrazioni diverse nella nostra vita. Anche se non migriamo da un Paese all'altro per nostra scelta o al di là della nostra scelta, tutti noi lasciamo costantemente indietro delle persone, parti di noi stessi e scopriamo nuove frontiere nella vita", sottolinea l'attore.
"Ciò che fa il corto attraverso questo tipo di produzione cinematografica poetica è presentare questi concetti al pubblico in un modo nuovo. In un modo che non sia intriso di un'aurea intellettuale o politica. In un certo senso ci riconnette ai concetti di identità e migrazione al di fuori dei titoli dei giornali. Così li riscopriamo in noi stessi nel modo più intimo. Penso che i personaggi più interessanti siano gli outsider, quelli che stanno cercando di capire chi sono. E credo anche che questo sia vero per la maggior parte degli esseri umani. Alcune grandi storie mettano a nudo delle motivazioni più profonde che cerchiamo di mascherare. La terra di nessuno, la zona grigia, il luogo dell'incertezza, della non appartenenza, della ricerca: è il luogo in cui vengono raccontate le storie migliori. È sicuramente il luogo in cui mi sento come se avessi trascorso lunghi periodi della mia vita. Può essere sia un dono che una maledizione".
È interessante notare come la sceneggiatura di Dammi si concentri nel raccontare una storia personale ma finisca per abbracciare tematiche molto più ampie che portano a riflessioni su concetti complessi. "L'idea stessa di terzo mondo e primo mondo per me contiene una sorta di gerarchia di valori con cui non sono d'accordo. Nel mondo in via di sviluppo, etichette come questa sono, a mio avviso, piene di presupposti secondo cui esse stesse possono essere il problema. Non sono neutre, ma etichette che ci incoraggiano a dividerci e a colorare il modo in cui ci vediamo l'un l'altro in aspetti che a volte non sono utili", sostiene Ahmed.
"In termini filmici è interessante poter far emergere alcuni di questi temi. Forse è solo il fatto di avere origini provenienti dall'Asia meridionale, di essere musulmano o figlio di immigrati. Forse la mia stessa presenza in dei film, per alcune persone, potrebbe aiutare a decostruire alcuni di questi concetti. Se è così, è una cosa bellissima. Ma è certamente un obiettivo elevato che penso sia oltre il mio controllo o il mio livello di retribuzione. Penso che alla fine la decostruzione di questi temi avvenga nei cuori e nelle menti delle persone".
Il privilegio di riconnettersi o reinventasi e il potere della narrazione
Dammi parla del privilegio di potersi riconnettere ad un luogo, ad un posto, ad una persona. Ma c'è un aspetto altrettanto eccitante nella possibilità di potersi ricreare, di esplorare e creare la propria narrazione. Qualcosa di profondamente connesso al mestiere dell'attore. Un privilegio nel quale si rispecchia anche Riz Ahmed? "Penso che ora più che mai abbiamo bisogno di parte della certezza che deriva dalla comunità e dalla fede. Quando dico fede non intendo necessariamente nemmeno la religione, anche se questa può farne parte. Riconoscere che non abbiamo tutte le risposte, che non siamo onnipotenti, vivere in una sorta di umiltà. Abbiamo bisogno di un po' di quella stabilità in un mondo che cambia. Allo stesso tempo, può essere una camicia di forza. Penso che la migrazione sia parte dell'essere umano, un bisogno intrinseco. Migri da un Paese all'altro o da un capitolo della tua vita a quello successivo. Siamo in continua evoluzione".
"Personalmente, lo ritrovo nel mio lavoro. Trovo sempre quel tipo di tensione nel cercare di interpretare ruoli in cui posso riconoscere parte di me stesso. Ho qualcosa a cui aggrapparmi. Sento un punto di connessione e riflessione su chi sono o forse chi mi piace pensare di essere. Ma anche un invito ad andare oltre la mia idea di me stesso. Mi sento molto privilegiato nel poter esplorare entrambi questi aspetti del mio lavoro. Per tornare al corto, penso che sia esattamente ciò che Yann ha fatto come artista e regista. Ha preso il lato lirico e poetico, ma anche il realismo della storia della sua vita e li ha intrecciati in un modo eccitante e stimolante".
Uno spazio temporale limitato - che si tratti di un film, un corto, una serie - e un potere illimitato: quello del racconto. In questi anni Riz Ahmed ha preso parte a grandi blockbuster, film indipendenti e serie tv diventate cult fino a cimentarsi lui stesso con la regia. Ma cos'è che lo affascina così tanto della narrazione? "Ritengo sia semplicemente una cosa profondamente potente, mistica e magica che facciamo come esseri umani. È la tecnologia più antica e ancora più potente che abbiamo. È teletrasporto, espansione mentale e viaggio nel tempo. Ci pone le domande più fondamentali su chi siamo. E penso ci dia una delle risposte più sconcertanti che ci siano: ovvero che siamo tutti noi. Non ci siamo io e te. Non ci siamo noi e loro. Ci ritroviamo attraverso le storie. Penso sia spirituale ed è un vero privilegio poterla esplorare".