Una bellissima azienda vinicola in Borgogna, tre fratelli in cerca di identità e di una soluzione per pagare i debiti del padre in fin di vita. Si potrebbe riassumere così Ritorno in Borgogna, il nuovo film di Cédric Klapisch, regista che più di ogni altro ha saputo raccontare la generazione Erasmus con un film diventato ormai un cult come L'appartamento spagnolo. Quindici anni dopo quello che ci configura è un ritorno alle origini. Quello di Jean (Pio Marmaï), che spinto dall'insofferenza e dalla curiosità, aveva lasciato la sua famiglia per girare il mondo. La malattia terminale del padre, proprietario di un grande vigneto a Meursault in Borgogna, gli offre l'occasione per ricongiungersi con la propria famiglia, affetti che aveva messo da parte per crearsene degli altri, una moglie e un figlio con cui vive in Australia. Ad accoglierlo al suo rientro in patria ci sono la sorella Juliette (Ana Girardot), responsabile e protettiva, e il fratello Jérémie (François Civil) neo-papà letteralmente ostaggio della famiglia della moglie.
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Una vita da grandi
Oltre al lutto che dovranno affrontare insieme poco dopo il suo arrivo, i tre fratelli dovranno sbrigare faccende molto più pratiche come il pagamento delle tasse di successione. Le nuove responsabilità si scontreranno con il modo diverso con il quale ognuno di loro si relaziona ai legami famigliari, al dolore e all'unica cosa che oltre ai ricordi sembrano avere in comune: la passione per il vino. Peccato che gli splendidi paesaggi verdeggianti di una delle regioni francesi più famose per il buon vino e l'abilità con cui li fotografa Alexis Kavyrchine non siano sufficienti a rendere coinvolgente questa riscoperta delle radici familiari. Jean, Juliette e Jérémie sono personaggi estremamente stereotipati e la recitazione, già di per sé poco credibile dei tre attori protagonisti, è accentuata da un doppiaggio italiano non tra i più brillanti. La colpa è principalmente attribuibile alla debolezza di un copione scolastico e superficiale che non si sofferma sulla loro caratterizzazione o sull'approfondimento delle tematiche trattate. Il contrario di Saint amour di Benoît Delépine e Gustave Kervern, per paragonarlo ad un film che di recente ha tentato la stessa operazione con esiti ben diversi e sicuramente positivi.
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Talmente brutto da...
Usciti dalla sala la prima battuta che viene in mente è che "Ritorno in Borgogna è talmente brutto da sembrare un film italiano". E non soltanto perché il ritorno alla regia di Klapisch è una totale delusione ma perché siamo soliti deridere le nostre commedie e paragonarle a quelle francesi, quasi sempre di livello superiore, senza contare che talvolta anche i cugini d'Oltralpe possono incappare su un film mal riuscito come questo. L'unica differenza? Sulle loro testate troverete una pioggia di elogi riguardanti il modo in cui il regista sopracitato è stato in grado di raccontare ancora una volta una gioventù in mobilità e un ritorno alle origini talvolta necessario per riscoprire se stessi, i propri affetti e le proprie necessità vitali. Niente che abbia realmente a che vedere con un film che non riesce neanche ad assolvere il compito di risultare leggero e godibile per chi sceglie di trascorrere qualche ora al cinema per pura evasione e non per riflettere sui soliti problemi quotidiani. Un esempio? Alla prima stampa alcuni colleghi erano talmente insofferenti che al termine della proiezione c'era già chi tra loro, prima ancora che si riaccendessero le luci, indossava il casco per mettersi in fuga con la propria motocicletta. Fate un po' voi!
Movieplayer.it
1.5/5