A premi già assegnati, si conclude con la giornata di domenica la ventinovesima edizione del Bellaria Film Festival. Chiude la sempre affollatissima serie di workshop l'appuntamento dedicato alla gestione dei formati video e quindi della postproduzione, incentrato in particolare sul software più apprezzato dai professionisti: Final Cut.
Il pomeriggio ha visto protagoniste le ultime tre pellicole della sezione Italia Doc. Ad aprire la serie I Am Jesus, che mette a confronto tre diverse comunità religiose, tutte convinte di avere a che fare con un secondo messia. Le registe Valerie Gudenus e Heloisa Sartorato hanno mantenuto uno sguardo garbato e rispettoso su questi microcosmi, di cui si correva il rischio di spettacolarizzare o ridicolizzare certe peculiarità. Il film, commentato in sala dal montatore Pablo Pastor, sospende ogni giudizio sul Gesù inglese, decisamente hippie e intenzionato ad abbracciare la sua parte femminile vestendosi da donna, sulle ragazze brasiliane che, in onore di INRI, rivisitano su YouTube i più grandi successi discografici, e sulla scuola siberiana in cui non si insegnano le guerre ma solo i progressi della storia, focalizzandosi invece su come queste nuove divinità abbiano cambiato il proprio mondo. In A Mao e a Luva, Roberto Orazi racconta della nascita, nel degrado di una favela brasiliana, di una biblioteca per bambini (ma non solo) e dell'ambizioso progetto che ha dato vita ad altre centinaia di strutture simili in tutto il Paese. La telecamera segue KCal, autodefinitosi "trafficante di libri", che da quindici anni lavora perché la cultura, e quindi la libertà, possa arrivare anche oltre l'indifferenza delle istituzioni. My Marlboro City, fresco di menzione speciale, ci porta in una Brindisi che non è mai riuscita a risollevarsi dopo la fine dell'economia del contrabbando, ma le cui storie, tratteggiate con sguardo lirico e dolente da una Valentina Pedicini che qui fa i conti con le proprie origini, parlano di voglia di ricominciare, di vivere, di amare.
In serata, spazio agli ultimi due titoli della sezione Panorama Internazionale. Jaffa, the Orange's Clockwork, di Eyal Sivan, racconta il conflitto tra ebrei e palestinesi attraverso un simbolo, quello delle arance, che appartiene ad entrambe le fazioni, mentre Iron Crows, del coreano Bong-Nam Park, ci mette davanti agli occhi la durissima realtà degli operai bengalesi che, per pochi dollari al giorno, smantellano senza nessuna garanzia di sicurezza le grandi navi dismesse sulla spiaggia di Chittagong. Una chiusura non certo confortante per un festival che, una volta di più, ci ha reso partecipi di una realtà lontana dal nostro quotidiano, e che tanto ha aggiunto alla nostra consapevolezza.