Cambiano le stagioni, le estetiche, i divi, ma Ridley Scott appare inscalfibile. Settantatrè anni, diciannove film alle spalle e ancora una posizione di assoluto privilegio negli studios, tanto che quando si tratta di scegliere il regista per un kolossal/peplum faticano ancora a trovare un'alternativa al regista inglese. Sarà forse perché Scott non si è mai tirato indietro (neanche davanti a Soldato Jane, raro manifesto di bruttezza) mostrando una fedeltà assoluta all'industria, oppure perché il suo marchio di fabbrica è garanzia di un risultato ben preciso in termini di aspettative e di risultati al botteghino. Di certo la filmografia americana del regista di Alien ha ripreso il volo dopo il successo de Il gladiatore, nel 2000, assicurandogli una seconda carriera divisa tra progetti più piccoli (ma sempre mainstream) e blockbuster in costume, troppo spesso liquidati frettolosamente come ampollosi drammoni dalla risibile verosimiglianza storica. Ma se il favore di molta critica si è spento nel tempo, rendendo miope la lettura anche di opere come American Gangster (probabilmente il suo miglior film dai tempi di Black Rain - Pioggia sporca, se non da Blade Runner) la coerenza di Ridley Scott non è in discussione e il suo percorso presenta numerosi spunti di riflessioni su quello che era il cinema trent'anni fa e su quello che è diventato oggi.
Ridley Scott, come è noto, si è formato nel mondo della pubblicità e della televisione inglese, ma il suo vigoroso marchio registico, ben impresso già dalla sua sorprendente opera prima I duellanti, dimostra una personalità lineare, ma indecifrabile allo stesso tempo. Eclettico ai limiti della schizofrenia, magniloquente ma sempre in perfetto controllo della macchina cinema, tutta la sua produzione ha un solo vero tratto comune: il pubblico come destinatario. Scott rifugge con forza, nonostante la natura autoriale di molto suo cinema (specie di quello fondativo) l'appellativo di intellettuale. Tutte le sue opere parlano inequivocabilmente alle masse, costruite senza tanti fronzoli e voli pindarici, ma anche con un salvifico istinto antimoralista che equilibra la retorica di alcuni degli script dei suoi film. Anche - e soprattutto - da questo punto di vista, il regista inglese è un uomo di Hollywood e la sua proficua e costante attività di produttore ne è una dimostrazione. Lo è nella mentalità pragmatica che lo contraddistingue ancor prima ancora di sbarcare nella mecca del cinema mondiale, probabilmente per la sua formazione da regista di spot pubblicitari. Basterebbe d'altronde un suo commercial, probabilmente il più celebre e osannato, ovvero quello che ha segnato la nascita del Macintosh, nel 1984, per racchiudere la sua natura ambivalente, fatta di peculiare visionarietà astratta e di un'anima smaccatamente commerciale. La sua cifra è il saper parlare al grosso pubblico, ma con un linguaggio colto e raffinato. Tecnicamente sopraffino, ma mai vuoto o formalista. La natura genuinamente spettacolare del suo cinema lo accomuna ai grandi registi hollywoodiani del passato (come Robert Aldrich, Robert Siodmak e Otto Preminger), capaci di passare attraverso i generi mantenendo intatta un'impronta stilistica, figlia di un classicismo che Scott ha sempre più abbracciato negli anni, specie da quando è diventato regista privilegiato di kolossal in costume. Se i vari Il gladiatore, Le crociate e l'ultimissimo Robin Hood differiscono molto in termini di risultati qualitativi (per lo più per ragioni di sceneggiatura), la sua estetica epica e muscolare lega passato e presente, finendo per risultare più attuale di quella ad esempio del fratello Tony Scott che, cavalcando acriticamente l'ipercinetismo parossistico dell'action degli '80 e dei primi anni '90, ha prodotto un cinema che è invecchiato molto peggio. L'equivoco di chi insiste nell'etichettarlo come un cineasta fallito (quando non bollito) è probabilmente dovuto agli sfolgoranti esordi americani. Ma se Alien e Blade Runner segnano dei picchi qualitativi inarrivabili, capaci di imprimersi con incredibile forza nell'immaginario collettivo, anche grazie all'ipnosi squisitamente cinematografica della sua messa in scena, di certo non delineano la personalità di un regista scomodo o ossessionato dalle proprie visioni. Per dirla brutalmente, Ridley Scott non è mai stato Stanley Kubrick e una certa perdita progressiva di qualità del suo cinema racconta più l'incapacità del cinema americano di realizzare grandi opere con il respiro di un tempo, piuttosto che la perdita di verve di un regista sempre pronto a mettere in gioco la sua professionalità, ma quasi mai la sua idea del mondo e delle cose. Se esistono infatti nuclei teorici costanti nella filmografia di Scott, la loro intelligibilità è a dir poco equivoca e nel ricercarli si rischia non poco di abusare della licenza interpretativa. Sicuramente il regista inglese è attratto da uomini e donne forti (dalla mitica Ripley di Alien a Thelma e Louise), con l'istinto della leadership e un background biografico sufficientemente oscuro per dare una misura della riluttanza del loro agire eroico. Perché se l'eroismo è dato nel cinema di Scott, la forza dei suoi migliori personaggi rispetta perfettamente i canoni classici promuovendo una motivazione morale dell'agire che fornisce quell'alone romantico al suo cinema che è ancora oggi requisito fondamentale per instaurare l'empatia con il pubblico. Il mito rimane la scintilla di tantissimo cinema del regista inglese. Una scintilla rimossa dal contemporaneo che pare voler rifiutare tale lezione raccontando eroi privati di qualsiasi molla psicologica o ideologica che giustifichi il loro operato. Il cuore pulsante di Massimo, gladiatore ed eroe archetipico del cinema di Scott, è il grande assente del cinema contemporaneo, da 300 fino a Avatar. Ed è il grande assente anche in Le crociate, il peplum più debole di Scott, affossato da una scrittura fragilissima e dalla mancanza di carisma e presenza scenica di Orlando Bloom. Perché il corpo dell'eroe è l'altro elemento centrale per un cinema dal vocabolario estetico così solido e Scott pare esserselo ricordato nell'ultimissimo Robin Hood, dove rivisita il mito del celebre arciere affidandone le vesti al suo inossidabile compagno Russell Crowe. Un film che ne rilegge il mito attraverso le gesta che ne hanno preceduto la leggenda, ritrovando il respiro e la sintesi delle sue opere più riuscite. Si potrà sicuramente discutere, con argomenti più che legittimi, sulla necessarietà di un film del genere oggi; un cinema che getta molte luce negli occhi e maschera una certa sterilità dei contenuti attraverso una messa in scena sfarzosa e roboante. Ma di certo Robin Hood non funziona per la strombazzata regia multicamera, le battaglie fragorose o i fondali digitali, ma perché imbevuto di uno spirito battagliero sincero e innegabilmente contagioso. Sono poi i percorsi collaterali a fornire un contributo prezioso all'interpretazione del cinema di Scott. Molto più dei vari Hannibal, Nessuna Verità o Black Hawk Down - che comunque maneggia la retorica militarista con un'energia e un'intrusione sorprendenti. Deviazioni improvvise e spiazzanti che ne raccontano l'animo più leggero a volte, disilluso altre. A partire da Il genio della truffa che racconta uno Scott inedito, quasi a disagio a gestire i tempi della commedia, con quel suo montaggio serrato e la ricercata forma con cui compone ogni inquadratura, ma lucido nello svincolarsi dalle lungaggini di molto cinema americano, con una cura dei rapporti psicologici e una spensieratezza, lontana anni luce dall'alone dark che investe gran parte dei protagonisti dei suoi film. Ci ha riprovato anche con Un'ottima annata - A Good Year, qui abbonando del tutto anche la dimensione action che garantiva il tema della truffa, per abbracciare il genere meno virile possibile: la commedia romantica. Ancora una volta la muscolarità del suo cinema pesa su un film fatto di accenti delicati e di un'immaginario da cartolina, che funge comunque da non luogo dove riscoprire un'appartenenza che la modernità calpesta e disumanizza. Ma a emergere è un aspetto dello Scott uomo e autore interessante e in controtendenza. Robin Hood rimescola le carte e ci riporta su strade battute che paiono essere quelle del futuro più prossimo, dove Scott par non volerne sapere di ritirarsi, almeno dal ruolo di produttore, vista la mole di titoli di alto profilo cui ha legato il suo nome.Ridley Scott: profilo di un uomo e di un regista per tutte le stagioni
Il vigoroso e inconfondibile marchio registico di Ridley Scott, dimostra una personalità lineare, ma indecifrabile allo stesso tempo. Eclettico ai limiti della schizofrenia, magniloquente ma sempre in perfetto controllo della macchina cinema, tutta la sua produzione ha un solo vero tratto comune: il pubblico come destinatario.