La rappresentazione sta diventando una tematica sempre più centrale nella serialità contemporanea. Ancor più dei film perché ci sono più ore (o settimane, se non è pensata per il binge watching) a disposizione per dare spazio e voce a personaggi che normalmente non ce li hanno. A volte per puro "algoritmo", altre (per fortuna) per necessità narrativa. È in questa seconda ottica che Taika Waititi, da sempre attento alle proprie origini Maori, ha voluto fortemente fare da rampa di lancio per la serie HULU di Sterlin Harjo, co-producendola e co-creandola. Arrivati alla seconda stagione, come spiegheremo nella recensione di Reservation Dogs 2, dal 4 gennaio su Star di Disney+ con appuntamento settimanale, il bacino del racconto si amplia ancora di più, respira meglio e permette ancor più rappresentazione, nel senso più positivo del termine.
Istinto di conservazione
Le vicende dei Reservation Dogs riprendono da dove li avevamo lasciati nel finale della stagione inaugurale: Elora Danan (Devery Jacobs) è l'unica che, "tradendo" gli amici, soprattutto Bear (D'Pharaoh Woon-A-Tai) che è quello che più ne è rimasto scottato, è fuggita insieme alla nuova amica diretta verso la California, il sogno "americano" del gruppo. Forse è tutta colpa di una maledizione, come pensano Cheese (Lane Factor) e soprattutto Willie Jack (Paulina Alexis), che tenta di convincere gli amici ad annullare il sortilegio. È proprio nel delicato equilibrio tra serio e faceto, tra commedia e dramma, tra vita quotidiana e storia universale, tra le piccole grandi baruffe del loro micro-universo in Oklahoma e il quadro generale della direzione che sta prendendo il mondo, che si muove la scrittura semplicissima eppure complessa di Reservation Dogs, con cui Sterlin Harjo ha voluto omaggiare le proprie origini. La messa in scena dal sapore indie, tra camera a mano, fotografia e scenografia minimalista, completa il lavoro riuscendo a portare il locale appunto nell'universale. Che dovrebbe essere l'obiettivo di qualunque produzione audiovisiva che fa della rappresentazione il proprio cavallo di battaglia e obiettivo principale.
Reservation Dogs, recensione: Indigenous Fiction
Maggior coralità
La seconda stagione di Reservation Dogs - che nel titolo strizza l'occhio alla cinematografia di Reservoir Dogs, nome originale de Le iene di Tarantino, solo in superficie, a dispetto di altre citazioni più incisive come i nomi di Elora e Willie - alza il tiro, o meglio amplia il bacino del racconto. Gli adulti e i ragazzi che popolano il mondo e le giornate di Elora Danan, Bear, Cheese e Willie Jack, diventano ancora più protagonisti nei dieci nuovi episodi (due in più del ciclo inaugurale) della serie più indigena che c'è. I personaggi sono ancora una volta gli outsider, gli strambi, i freak che vivono alla giornata e devono arrabattarsi con le piccole grandi conquiste quotidiane. Come ad esempio la lotta intestina di Bear con le gang del posto, il suo disperato bisogno di essere un leader e soprattutto di ritrovare un legame con l'estraniato padre. Ancora di più che nel primo capitolo, il rapporto tra genitori e figli diviene centrale nel racconto e motore delle azioni dei protagonisti - anche delle guest star, come ad esempio l'inedita Megan Mullally del secondo episodio. I quattro "cani da riserva" sono anche loro alla ricerca delle proprie origini, vogliono costruire e mantenere un'identità culturale dai propri antenati, come quello che Bear vede nelle proprie visioni - e oramai non sarà l'unico, rendendo quel personaggio ancor più significativo e illuminante per l'intera comunità.
Comunità indigena
A proposito di comunità, quella indigena è largamente rappresentata sia davanti che dietro la macchina da presa - come per quella LGBTQIA+ in Pose - soprattutto grazie al fatto che le riprese si svolgono interamente nella riserva dell'Oklahoma e non in altri luoghi come il Canada, spesso fatto passare per le location più disparate nelle serie tv. La scelta, dettata sempre dall'obiettivo primario dello show, rende ovviamente tutto più realistico e fa respirare anche allo spettatore attraverso lo schermo l'identità culturale raccontata. Ribellione tipica dell'età adolescenziale, obbligo a crescere troppo in fretta per i lutti subiti e per le porte in faccia ricevute dalla vita, romanzo di formazione sono gli ingredienti che si fanno ancora più colorati e variegati in questa seconda stagione, alzando il tiro e permettendo ai personaggi di brillare.
Conclusioni
Un coming of age indigeno che continua a crescere. È questo che emerge dalla recensione di Reservation Dogs 2, che nel secondo ciclo di episodi allarga il bacino del racconto rendendo protagonisti anche gli altri personaggi che popolano la comunità indigena, piccolo mondo antico del quartetto al centro della narrazione.
Perché ci piace
- La verità e l’onestà della rappresentazione della comunità indigena sia a livello di scrittura che di messa in scena.
- L’interpretazione dei quattro protagonisti e degli altri, che trovano maggior spazio.
- Maggior coralità e centralità della tematica genitori-figli.
Cosa non va
- La serie continua il proprio percorso identitario come i protagonisti, quindi se non vi era piaciuta la prima stagione, difficilmente vi convincerà questa seconda.