C'è un parallelo tra l'inizio di Rectify e Making a Murderer. Il documentario, incentrato sull'incredibile quando sconvolgente odissea giudiziaria di Steven Avery creato da Laura Ricciardi e Moira Demos per Netflix, si apre con le immagini di repertorio dell'uomo che, dopo diciotto anni passati in carcere con l'accusa di aggressione sessuale, torna libero, grazie all'esame del DNA - non ancora esistente all'epoca del suo arresto -, tra la famelica copertura mediatica e l'entusiasmo frastornato dei suoi familiari.
Le prime scene di Rectify vedono infatti il suo protagonista, Daniel Holden (Aden Young), varcare i cancelli blindati del braccio della morte nel quale era detenuto in isolamento da quasi vent'anni con l'accusa di omicidio, tra il suo stupore sconcertato, l'emozione mista a shock dei suoi familiari e una schiera di televisioni appostate davanti alla struttura penitenziaria, tra comizi accusatori e l'esultanza degli innocentisti. Ma se il docu-crime del colosso di streaming on line si focalizza, attraverso Avery e il suo vissuto, sulla malagiustizia statunitense raccontando uno spaccato preciso della provincia americana, la serie targata SundanceTv, fin dal suo primo episodio diretto da Keith Gordon, Always There, è maggiormente interessata all'introspezione psicologica dei suoi protagonisti e alla costruzione di un ritratto sociale del sud degli Stati Uniti - l'azione si svolge a Paulie, Georgia - che rappresenta la cornice imprescindibile per comprenderne il contesto all'interno del quale la narrazione prende forma.
Ideata da Ray McKinnon, già attore in Deadwood e Sons of Anarchy, la serie trae spunto da reali vicende giudiziarie legate a detenuti del braccio della morte per tramutarsi in una riflessione sul senso stesso della libertà, fuori e dentro le quattro mura di un cella. Daniel, infatti, dopo essere stato messo in isolamento con l'accusa di aver stuprato ed ucciso la sua fidanzatina sedicenne, è diventato uomo lontano dallo sguardo dei suoi cari, costruendosi una sua ritualità carceraria che gli permettesse di scindere il fuori con il dentro attraverso la lettura, la meditazione e l'amicizia con Kervin, vicino di cella con il quale condividere l'unica parvenza di contatto umano. Il giorno della sua scarcerazione Daniel ha trentasette anni ma è un uomo-bambino, totalmente scollegato da una società che è andata avanti senza di lui e da una famiglia che non (ri)conosce. Questo è il preciso punto di inizio di Rectify, il faticoso viaggio di reinserimento alla normalità dell'uomo e di chi gli sta attorno, all'interno di un ambiente che continua, nella maggior parte dei casi, a guardarlo con gli occhi del sospetto, mantenendo sempre parte dell'attenzione alla traccia crime che fa da sfondo alla serie.
"What was real to you?"
Dopo tre rinvii di pena nei quali si è o ha cercato di prepararsi psicologicamente all'idea di conoscere il giorno esatto della propria morte, il concetto di realtà assume forme del tutto soggettive per Daniel. La scrittura di Rectify, serie prodotta da Mark Johnson e Melissa Bernstein (gli stessi di Breaking Bad), è abilissima nel riportare il conflitto interiore dell'uomo (e dei componenti della sua famiglia allargata) che una volta tornato a casa non riconosce le strade della sua cittadina ormai trasfigurate da catene di fast food e centri commerciali né, tantomeno, i suoi affetti lasciati vent'anni prima. Daniel appare come un uomo cortese, buffo nel suo goffo tentare di comprendere il nuovo attorno a lui, malinconico e, al tempo stesso, ambiguo.
Leggi anche: Intervista a Melissa Bernstein, da Breaking Bad a Rectify
Nel corso delle tre stagioni - con un primo capitolo che segue la settimana successiva la scarcerazione - gli autori hanno disegnato attorno al protagonista un alone di dubbio che lascia nello spettatore l'incertezza sulla sua innocenza o colpevolezza. Questo perché, similmente a quanto accade per Top of the Lake - altra serie targata SundanceTv - non è (unicamente) la componente crime al centro della narrazione, quanto quella prettamente psicologica che non si limita a coinvolgere lui ma si allarga a tutti gli altri personaggi. La scissione tra il passato e il presente viene rappresentata nella vita di Daniel anche attraverso oggetti per noi di uso comune, come un lettore dvd, ma per l'uomo novità da guardare con curiosità che in parte lo turbano. E allora ecco che un vecchio walkman o vestiti ritrovati in un armadio diventano preziose testimonianze dalla sua di realtà, quella lasciata vent'anni prima e che lo accompagnano allo scoperta del nuovo, che sia il riprovare la sensazione di camminare a piedi nudi sull'erba o guardare la luce del sole illuminare l'interno della sua stanza, lui che per anni non ha mai avuto una finestra dalla quale guardare.
"Trying hard to breath"
Inizialmente pensato per il grande schermo, Rectify, ha uno stile visivo molto cinematografico, sorretto da una fotografia intensa, lucente anche nelle sue tonalità più oscure, e che assume le sfumature di un bianco accecante e onirico nei frequenti flashback ambientati in prigione che riportano a galla il passato carcerario dell'uomo contrapposto al suo presente libero ma sospeso in un'irrealtà data dallo spaesamento sociale ed emotivo. Un dramma dalle sfumature crime dove l'interpretazione sublime di Aden Young è supportata da quelle altrettanto ottime di Abigail Spencer nel ruolo di sua sorella Amantha, instancabile sostenitrice, di Luke Kirby nei panni dell'avvocato difensore Jon o, ancora, di J. Smith-Cameron nei panni di Janet Talbot, madre di Daniel.
Il ritmo visivo e narrativo della serie sono tutt'altro che frenetici, riportando con i dialoghi e le inquadrature dedicate alla suggestiva natura georgiana, la lentezza del tempo conosciuta da Daniel in prigione così simile a quella necessaria per trovare un nuovo equilibrio. Sebbene il racconto legato al contesto familiare non sia, di partenza, particolarmente originale o inedito, la forza di Rectify è nella sua stratificazione narrativa capace di parlare di legami umani, giustizia, società, dolore ed espiazione attraverso una scrittura attenta, intensa, universale eppure così ancorata al contesto dal quale prende vita, quell'America ripiegata su se stessa, dove la bellezza dei paesaggi ed il ritmo musicale della lingua si contrappongono, spesso, alla sua chiusura, il tutto accompagnato da una colonna sonora ricercata che da Bon Iver passa per Sharon Van Etten o ai Mazzy Star.
Movieplayer.it
4.0/5