Recensione The Cut (2014)

Dramma storico che Fatih Akin tenta di caricare di una dimensione epica, The Cut soffre forse della poca dimestichezza del regista con tale registro; la messa in scena è corretta ma anche eccessivamente piana, e l'emozione finisce per latitare.

Siamo a Mardin, nel sud-est della Turchia, nel 1915. Il fabbro Nazaret Manoogian, sposato e con due figlie gemelle, viene prelevato da guardie armate durante la notte, insieme a tutti gli adulti armeni della città. Nell'ambito della nuova politica governativa, improntata alla "pulizia etnica" verso le minoranze, il fabbro e gli altri prigionieri vengono deportati in un campo di lavoro sito nel deserto: l'arsura e le condizioni disumane di lavoro riducono gli uomini allo stremo delle forze, uccidendone alcuni. Qualche tempo dopo, Nazaret e i suoi compagni si svegliano di mattina nell'accampamento deserto: le guardie sembrano scomparse, ma gli uomini sono finiti in realtà nelle mani di una banda di mercenari, che decide di giustiziare l'intero gruppo.

Solo Nazaret, miracolosamente, sopravvive all'esecuzione di massa, con una ferita alla gola che lo rende muto. Poco dopo, il fabbro apprende che il suo villaggio è stato completamente distrutto, ma che le sue due figlie sono sopravvissute. Per Nazaret, sarà l'inizio di una lunga odissea: questa lo condurrà attraverso quasi un decennio di storia in due continenti, dal deserto mediorientale alle praterie del Nord Dakota, nella speranza, mai sopita, di riabbracciare le due ragazze.

Il dramma privato nel collettivo

The Cut: Tahar Rahim in viaggio per mare
The Cut: Tahar Rahim in viaggio per mare

Con The Cut, presentato in concorso nell'ambito della settantunesima Mostra del Cinema di Venezia, Fatih Akin conclude quella che considera una sua personale trilogia: se era l'amore il motivo al centro de La sposa turca, mentre Ai confini del paradiso voleva essere una riflessione sulla morte, con la sua nuova opera il regista intende esplorare, in senso lato, il tema del diavolo; soprattutto, ad Akin interessa, laicamente, la natura diabolica delle azioni umane, e come questa possa assumere (ed è stato il caso del massacro degli armeni) un carattere di massa. Il film di Akin, tedesco di origini turche, ha l'indubbio merito di affrontare una delle tragedie meno dibattute del secolo scorso, perpetrata da uno stato che solo di recente ha sentito il bisogno di scusarsi. Akin, tuttavia, restringe il campo della sua visuale, tiene il lato politico della vicenda rigorosamente sullo sfondo, e decide di spostarsi dal dramma collettivo di un popolo a quello personale di un padre; al centro della storia, c'è il disperato tentativo del protagonista di ricostruire un legame spezzato, quello familiare, l'unico che nel film sembri davvero contare.

Crollata, in Nazaret, anche la fede religiosa, rinnegata a causa di un dio indifferente e lontano, l'unica appartenenza che resta è quella familiare: una volta appreso della sopravvivenza delle figlie, il protagonista, lungo quasi 10 anni di storia, farà del loro ritrovamento la sua unica ragione di vita.

The Cut: Tahar Rahim in viaggio nel deserto
The Cut: Tahar Rahim in viaggio nel deserto

Un'odissea tra tre mondi

La ricerca di Nazaret spazierà tra i territori di Turchia, Iraq, Libano e Siria, per poi spostarsi nel continente americano, e toccare Cuba e gli Stati Uniti. Ai torridi deserti del Medio Oriente si sostituiscono prima i sobborghi de L'Avana e poi le assolate distese nordamericane, per un racconto che punta decisamente, fin dalla sua concezione, a costruire un forte senso di epicità. La narrazione privata del viaggio del protagonista tenta di assumere, a un certo punto, una dimensione mitica; il racconto mira a un'esaltazione astorica, quasi archetipica, del coraggio individuale, spogliato da qualsiasi sovrastruttura. Per la stessa ammissione di Akin, infatti, The Cut è pensato come "un film epico, un dramma, un film d'avventura e un western". La fuoriuscita dai confini del dramma storico si sovrappone al tentativo di far assumere alla vicenda una dimensione universale, in grado di coinvolgere al di là della sua ambientazione e dei temi di partenza.

Problemi di tono, problemi linguistici

Tahar Rahim con Simon Abkarian in una scena di The Cut
Tahar Rahim con Simon Abkarian in una scena di The Cut

Il regista, tuttavia, a suo agio quando affronta ritratti più piccoli (e lo dimostra anche qui, nelle sequenze iniziali ambientate nel villaggio) non sembra pienamente in grado di gestire storie dal respiro più ampio. The Cut, sulla carta (a partire dalla durata) ha tutto del racconto epico, del viaggio come ricerca di sé e delle proprie radici, dell'esaltazione tutta umana del coraggio: ma, paradossalmente, è l'emozione a latitare. Il tono è piano, monocorde, con una regia che segue correttamente il peregrinare del protagonista, ma senza idee degne di nota: Akin, forse nel tentativo di controbilanciare la piattezza della messa in scena, inframezza la vicenda di sequenze oniriche (una delle quali addirittura virata all'horror) che raggiungono però l'unico risultato di apparire fuori contesto.

Un altro (macroscopico) limite di questo The Cut è quello linguistico: e parliamo, purtroppo, di una scelta che ultimamente sembra accomunare la realtà di molte co-produzioni. Ha davvero senso, ci domandiamo, mostrare degli armeni che parlano un inglese stentato, palesemente posticcio? Se il problema viene presto risolto nel caso del protagonista Tahar Rahim (reso quasi subito muto dalla sceneggiatura) il resto dei dialoghi in inglese trasmette uno sgradevole senso di straniamento.

Conclusioni

The Cut non è, in sé, un brutto film; ma l'impressione, forte, è che il regista abbia scelto di maneggiare registri che non sono i suoi. Nonostante alcune buone sequenze, e la ribadita abilità recitativa (pur senza dialoghi) di Rahim, manca in gran parte la capacità di suscitare empatia ed emozione. E le due ore e un quarto di durata, alla fine, finiscono per far sentire il proprio peso.

Movieplayer.it

2.5/5