Recensione Quando la notte (2011)

In Quando la notte la maternità non viene vista come qualcosa di scontato e naturale, ma si tenta di metterne in scena i lati negativi, le difficoltà e quel senso di inadeguatezza e di claustrofobia che accompagna le neomamme nei primi anni di vita dei figli.

Montagne di sentimenti

La maternità è un tema delicato di cui si parla molto, ma quasi mai in modo realistico. Nell'Italia patriarcale e arretrata che si proietta nel XXI° secolo trascinandosi dietro un bagaglio di ipocrisie e pregiudizi ormai logori la regista Cristina Comencini ha il coraggio di smontare l'immagine stereotipata dell'esperienza di crescere un figlio, facendo luce su sentimenti e paure comuni a molte donne. In Quando la notte la maternità non viene vista come qualcosa di scontato e naturale, ma si tenta di metterne in scena i lati negativi, le difficoltà e quel senso di inadeguatezza e di claustrofobia che accompagna le neomamme nei primi anni di vita dei figli. L'intento della Comencini è lodevole, ma Quando la notte, adattamento del romanzo omonimo della regista, è anche e soprattutto un melodramma sentimentale con venature noir che mette troppa carne al fuoco perdendo inevitabilmente il senso della misura. Il film parte bene incastrando in una cornice ambientata al presente un lungo flashback che contiene il vero nucleo della storia, un drammatico incidente dai risvolti sconvolgenti che avvicinerà una giovane madre (Claudia Pandolfi) e un'ombrosa guida alpina di nome Manfred (Filippo Timi).


Alla maternità sofferta di Marina si contrappone l'abbandono di Manfred e dei fratelli da parte della madre, avvenuto in giovane età, al quale si aggiunge quello più recente della moglie. Le troppe coincidenze minano l'autenticità di una pellicola che intreccia drammi su drammi per dare in pasto a un certo pubblico femminile emozioni facili e che, quando la tensione costruita nella prima parte si dirada, finisce con lo sfociare nell'umorismo involontario. A un certo punto della storia, dopo una scena madre di dubbio gusto che vede protagonisti Michela Cescon e Thomas Trabacchi, il film abbandona del tutto il tema della maternità per concentrarsi sull'attrazione sbocciata all'improvviso tra Manfred e Marina. Dall'incidente di Manfred in poi, complice un montaggio poco azzeccato e una serie di battute ambigue ed enfatiche, la storia perde di coerenza e crediblità. Lo stesso incidente di Manfred/Timi appare piuttosto improbabile, considerato che una guida alpina esperta con problemi di vista non si avventura su un sentiero di montagna senza portarsi dietro l'attrezzatura necessaria a segnalare la propria posizione in caso di difficoltà.

Man mano che il film procede le motivazioni del comportamento dei personaggi vengono meno fino ad arrivare all'ultima parte in cui la storia perde ogni coerenza residua. La regia indulge spesso in vezzi autoriali - dall'oggettivazione del disturbo alla vista di Manfred tramite l'uso dello sfuocato alle panoramiche aeree e all'uso insistito del montaggio alternato e di flashback non sempre calibrati - perdendo di vista la direzione degli attori. Claudia Pandolfi si dimostra volenterosa e cerca in tutti i modi di sopperire ai limiti della storia tentando di risultare credibile e naturale sia nei panni della madre sofferente che in quelli della donna innamorata, ma divisa tra due passioni. Lo stesso non può dirsi di Filippo Timi che, per tutto il film, mantiente un'espressione corrucciata che lo fa somigliare più a un serial killer che a una guida alpina per poi perdere completamente la bussola nel finale dove le poche battute che gli vengono messe in bocca si rivelano infelici. Questo film non metterà certo in discussione il ruolo di Cristina Comencini quale punto di riferimento di un certo cinema - ma anche letteratura e teatro - incentrato sui sentimenti e declinato al femminile, ma è certo che un lavoro più snello e meno pretenzioso avrebbe giovato all'intento primario dell'opera: riflettere a fondo sulla vera essenza della maternità.

Movieplayer.it

2.0/5