Recensione Pink Subaru (2009)

Un esperimento insolito, un esempio di cinema nipponico dal taglio internazionale e multietnico, quasi un melting pot di influenze e professionalità per l'esordio del regista Kazuya Ogawa.

Rosa fiammante

Tayibe, una città di arabi israeliani al confine tra lo stato ebraico e la Cisgiordania. Elzober, vedovo quarantacinquenne con due bambini, ha finalmente coronato il sogno della sua vita: una Subaru Legacy nuova di zecca, nera fiammante, molto più di un semplice mezzo di trasporto. In quella zona, infatti, l'automobile è un mezzo di vitale importanza per raggiungere i grandi centri di Gerusalemme o Tel Aviv, ma non sono molti quelli che possono permettersela: Elzober, cuoco in un ristorante di sushi di Tel Aviv, è finalmente riuscito a raggiungere quest'obiettivo dopo venti anni di risparmi. La sua gioia, però, è destinata a durare poco: dopo una notte di festeggiamenti, con tanto di sgozzamento dell'agnello e balli con parenti, amici e vicini di casa, il pover'uomo si accorge che la macchina è sparita. L'entusiasmo di Elzober si trasforma così in disperazione: appurato che la Subaru è stata rubata la notte prima, e che per un ritardo dell'impiegata del concessionario non era stata ancora assicurata, i parenti e gli amici dell'uomo si attivano tutti per cercare di ritrovare l'automobile; tra loro, un ex ladro d'auto, una coppia di ebrei sefarditi, il datore di lavoro di Elzober e la sua collega, una stravagante ragazza giapponese.

Questo Pink Subaru, arrivato nelle nostre sale in sordina a due anni dall'uscita originale (e dalla presentazione al Torino Film Festival) rappresenta un esperimento insolito, un esempio di cinema nipponico dal taglio internazionale e multietnico, quasi un melting pot di influenze e professionalità per l'esordio del regista Kazuya Ogawa. Il film è in effetti co-finanziato da produttori giapponesi, israeliani, palestinesi e italiani, ma non manca di una sua specificità cinematografica, pur nelle diverse suggestioni espresse: il ritmo, il carattere corale della messa in scena, lo svolgimento a tratti surreale dell'intreccio fanno pensare a molta commedia nipponica recente, mentre il colore rosa già evocato dal titolo (e facente capolino in alcuni fondamentali passaggi della trama) evoca il genere della commedia erotica giapponese, pur con un riferimento che resta sullo sfondo, a livello di semplice strizzatina d'occhio per gli appassionati. In una commedia dal carattere frizzante e moderno, quindi, insolitamente ambientata in un territorio che in genere è teatro di ben altre storie cinematografiche, lo scopo dichiarato del regista (e dei co-sceneggiatori Giuliana Mettini e Akram Telawe, quest'ultimo anche attore protagonista) era quello di mostrare il lato quotidiano della vita di chi abita in quelle terre, quello più buffo e grottesco, ma anche più positivo e vitale. Non deve stupire, quindi, l'assenza di checkpoint e carri armati, ma neanche quella di un approfondimento dei conflitti striscianti in quelle terre, delle differenze culturali, delle tensioni etniche: il regista preferisce concentrarsi su una ricerca frenetica dai tratti surreali, all'interno di una piccola comunità la cui specificità culturale resta volutamente sullo sfondo.

In un film caratterizzato da un'onesta ricerca e voglia di raccontare, da un genuino tentativo di sradicare luoghi comuni filmici che vorrebbero questi territori teatro di soli drammi bellici, quello che tuttavia non funziona del tutto è una regia paradossalmente un po' timida, che esprime quasi un timore di pigiare fino in fondo sul pedale del grottesco e in alcuni punti sembra fin troppo (inopinatamente) controllata. Le surreali vicende raccontate richiedevano forse un approccio più radicale alla messa in scena, mentre dall'altro lato non sempre la sceneggiatura riesce a star dietro ai tanti personaggi e alle loro variegate vicende, rendendo a tratti la narrazione un po' confusa. Così, i limiti espressi dal film sono da un lato narrativi, con un sovrapporsi di personaggi e intrecci tra sottotrame che finiscono spesso per togliersi spazio l'un l'altra, senza arrivare a un vero equilibrio narrativo; dall'altro risultano limiti di regia, con una messa in scena che, malgrado la sovrabbondanza appena ricordata di caratteri e vicende raccontate, rinuncia a dare davvero un taglio surreale e di rottura al film.
Resta comunque, questo Pink Subaru, un esordio piacevole da guardare e un esperimento certamente originale nel suo contesto, o piuttosto nei tanti contesti produttivi di cui è espressione. Nonostante i limiti intrinseci, quindi, un tentativo da incoraggiare e sostenere.

Movieplayer.it

3.0/5