Recensione L'urlo e il furore (2014)

La complessità de L'urlo e il furore sembra aver risvegliato nel vulcanico James Franco un senso di responsabilità che lo porta a ripensare il linguaggio cinematografico con inedita serietà.

Il tarlo della letteratura continua a divorare James Franco. Per l'eclettico attore, regista, scrittore, insegnante e pittore arriva il momento di un nuovo difficile adattamento. Dopo Child of God, tratto da Cormac McCarthy, e As I Lay Dying di Faulkner, Franco torna a guardare ancora a Faulkner, uno dei suoi 'padri' nonché fonte d'ispirazione privilegiata, mettendo in scena il romanzo seminale L'urlo e il furore, epopea che racconta i dissidi interni a una famiglia del Sud.

La disgregazione del clan Compson è un'accesa metafora della decadenza che colpisce una regione, intensificandosi a partire dagli anni '50. Ecco che Franco sente il bisogno di immergere i suoi personaggi in una natura lussureggiante, apparentemente idilliaca, tra prati sterminati, boschi in cui i raggi del sole filtrano a formare trame lucenti e fiori variopinti. Una natura dalle profonde valenze simboliche che sarà presente per tutta la parabola discendente dei Compson fino all'intenso finale.

La vittoria è un'illusione dei filosofi e degli stolti (William Faulkner)

Per trasporre con efficacia la forza del romanzo di Faulkner, James Franco e lo sceneggiatore Matt Rager ne mutuano la struttura, riducendo da quattro a tre i capitoli della storia e incorporando il punto di vista della domestica di colore nel capitolo dedicato a Jason, il fratello cattivo. Dopo un breve prologo, inaugurato da un lento carrello in avanti che introduce il pubblico nella magione sudista, il film si compone di tre parti dedicate, rispettivamente, a Benjy, il fratello ritardato, a Quentin, quello più fragile e nervoso che, in seguito al precipitare degli eventi, sceglierà la via del suicidio, e a Jason, il più spregevole. Le tre storie, che variano nella forma e nello stile, ruotano attorno a un unico fulcro, la rossa Caddy, unica figlia femmina, oggetto di grande amore e di feroci critiche nel clan familiare.

Tre capitoli sull'amore e sul dolore

L'urlo e il furore: Danny McBride in una scena del film
L'urlo e il furore: Danny McBride in una scena del film

Per aderire al punto di vista dei tre fratelli Compson, figure estremamente diverse l'una dall'altra, James Franco muta ripetutamente stile rivelando grande duttilità. Una piacevole sorpresa, soprattutto considerando che le pellicole dirette da lui finora erano tutte piuttosto simili e si tramandavano gli stessi difetti. La complessità de L'urlo e il furore sembra aver risvegliato nella vulcanica star un senso di responsabilità che lo porta a ripensare il linguaggio cinematografico con inedita serietà. Così nel primo capitolo, intitolato Benjy, per aderire allo sguardo del suo infelice uomo ritardato, legato alla sorella da un affetto morboso che affonda le radici nell'infanzia, il regista si produce in uno stile evocativo, quasi onirico, che contiene echi malickiani. Con un montaggio alternato che accosta liberamente passato e presente ricostruiamo l'amore di Benjy per la sorella e la natura pura, ribelle e indipendente di quest'ultima.

L'urlo e il furore: James Franco in una concitata scena del film
L'urlo e il furore: James Franco in una concitata scena del film

Nel secondo capitolo, dedicato a Quentin, la narrazione si fa meno rarefatta e si condensa intorno alla defunta figura paterna, interpretata da Tim Blake Nelson, la cui voce impastata dall'alcool e il cui ticchettio del suo orologio tormentano la mente sconvolta dei figli. In questo capitolo si narra la tragica parabola di Quentin, studente fragile e ipersensibile che tenta di impedire alla sorella di rovinare la propria reputazione accoppiandosi con un poco di buono fuori dal matrimonio. Franco suggerisce anche la possibilità di un rapporto incestuoso con Caddy, evocato fugacemente come una visione, senza però approfondire la questione. Nel terzo e ultimo capitolo, quello dedicato a Jason, ottimamente interpretato dal protagonista di Child of God Scott Haze, lo sguardo narrante si indurisce, in parallelo con i violenti scontri tra Jason e la nipote, figlia di Caddy sottratta alla madre dopo la nascita, e si fa concitato.

Tra eccessi narcisistici e sperimentazione

L'urlo e il furore: Seth Rogen con Scott Haze in una scena del film
L'urlo e il furore: Seth Rogen con Scott Haze in una scena del film

L'urlo e il furore, finora, è l'opera più matura di James Franco. Nel portare Faulkner sul grande schermo, il regista agisce per sottrazione. Il risultato è un'opera ellittica ed evocativa dove il non detto in alcuni momenti potrebbe rappresentare un problema per quegli spettatori che non conoscono del romanzo originale. Ma il vero problema del film è proprio la presenza di James Franco. La star si sopravvaluta ritagliandosi il ruolo più delicato, quello del minorato Benjy, ma in confronto agli interpreti che, prima di lui si sono cimentati nella difficile impresa, sceglie di strafare. Il risultato è fastidioso. Vederlo grugnire e sbavare in primissimo piano per i primi venticique minuti distrae il pubblico dalla poetica messa in scena. Franco cattura su di sé l'attenzione, ma non riesce a trovare la misura fornendo un'interpretazione eccessiva, ai limiti del ridicolo. Più misurati gli altri interpreti, particolarmente apprezzabili i camei di Seth Rogen nei panni di un telegrafista con la passione per Babe Ruth e Danny McBride in quelli di un avvocato.

Conclusioni

L'urlo e il furore è il miglior lavoro diretto da James Franco. Il film, poetico ed evocativo, paga l'interpretazione del regista che si ritaglia il ruolo del fratello minorato mentale dando vita a una performance eccessiva e fastidiosa.

Movieplayer.it

3.0/5