La negazione del principio di razionalità: un assunto al quale possono essere ricondotte le radici stesse dell'horror, genere in cui, in una realtà regolata da leggi che si presumono inviolabili, irrompono fenomeni che afferiscono invece alla sfera dell'ignoto e dell'occulto. Su tale contrapposizione è imperniata la sfida fra chi, utilizzando le armi della ragione e dell'analisi scientifica, tenta di riportare la realtà al suo cosiddetto "ordine", e quelle forze oscure e misteriose le cui origini risiedono nella superstizione o, appunto, nel soprannaturale.
Un conflitto paradigmatico, messo nuovamente in scena, con apprezzabile efficacia, dal regista e sceneggiatore John Pogue (al suo secondo cimento cinematografico dopo Quarantine 2: Terminal), il quale si affida ad un copione scritto a ben otto mani (incluse quelle del talentuoso Oren Moverman, autore di Io non sono qui) e ispirato ad un famigerato esperimento di parapsicologia condotto a Toronto nel 1972.
Hammer Horror
A differenza della maggior parte degli horror contemporanei, Le origini del male sfrutta un'ambientazione "d'epoca" - per la precisione, il 1974 - dai fascinosi toni vintage, rispecchiati anche dalle tinte quasi sbiadite della fotografia di Mátyás Erdély. Al cuore della vicenda, l'audace esperimento condotto da un docente dell'Università di Oxford, il professor Joseph Coupland (il valido Jared Harris, ex componente del cast di Mad Men), con la collaborazione di tre coraggiosi studenti: adoperarsi a "curare" Jane Harper (la bravissima Olivia Cooke, lanciata dalla serie Bates Motel), una ragazza di poco più di vent'anni che mostra i sintomi di un'apparente possessione demoniaca.
La fiducia razionalistica del professor Coupland, graniticamente convinto di poter fornire una spiegazione logica a manifestazioni sinistre ed incomprensibili, passa anzitutto attraverso l'osservazione diretta: pertanto il professore ingaggia uno dei suoi studenti, il timido Brian McNeil (Sam Claflin), affinché documenti tutte le fasi dei loro esperimenti mediante una cinepresa. Una convenzione narrativa, quella di far aderire lo spettatore allo sguardo "oggettivo" di un occhio meccanico, già sfruttata - in maniera radicale - in titoli cult dell'horror degli ultimi anni quali Rec, Cloverfield e, prima ancora, il celebre The Blair Witch project - Il mistero della strega di Blair. Anche nel presente caso, la "scientificità" dell'operazione messa in atto dal professor Coupland e dal suo team è ribadita dall'alternanza fra una regia più "classica" e le immagini filmate dal cameraman del gruppo, con un'estetica da 16mm.
L'occhio che uccide
La suddetta scelta, oltre a suggerire un costante "sfasamento" a livello di rappresentazione filmica, innesca un intrigante sottotesto relativo all'atto stesso della visione, con la sua natura intimamente voyeuristica (e il voyeurismo, come ci ricordava il buon Alfred Hitchcock ne La finestra sul cortile, è una "perversione" fondamentale per il pubblico cinematografico) e il suo implicito intento di controllare ciò che si guarda, di conferire una stabilità ed un senso quantomeno al nostro limitato orizzonte visivo. E non a caso il personaggio di Brian, relegato al compito di osservare e registrare in maniera passiva, ed emblematicamente escluso dalle distrazioni sessuali praticate dai suoi colleghi Harry Abrams (Rory Fleck-Byrne) e Kristina Dalton (Erin Richards), finisce quasi per rievocare Peeping Tom, il killer munito di cinepresa del classico di Michael Powell L'occhio che uccide.
Si tratta di una delle molteplici suggestioni di un film che, sapientemente, attende a svelare le proprie carte, mantenendo lo spettatore sul filo di una curiosità appagata soltanto poco a poco, senza cadere quasi mai nella tentazione di scivolare negli eccessi, e in grado di sfruttare con discreta abilità perfino alcuni stereotipi ormai stra-abusati del genere di appartenenza - la ragazza dal viso angelico ma con comportamenti da indemoniata, lo spazio circoscritto a una solitaria casa di campagna, perfino la "bambola malefica" trasformata in un totem satanico. Magari non riscriverà le regole dell'horror, ma nel suo campo Le origini del male si dimostra sorprendentemente superiore rispetto a tanti altri titoli analoghi, grazie ad una sostanziale "semplicità" capace tuttavia di generare dosi crescenti di inquietudine nel corso dei suoi 98 minuti di durata.
Conclusioni
Caratterizzato da un'efficace ambientazione vintage - l'Inghilterra degli anni Settanta - e da un approccio narrativo in base al quale la prospettiva del pubblico si trova spesso a coincidere con lo sguardo di una cinepresa, Le origini del male sa sfruttare abilmente gli spunti offerti dal soggetto di partenza, evitando di scivolare in inutili eccessi o in soluzioni troppo scontate. Il risultato è un horror ricco di suggestioni e in grado di infondere un notevole senso di inquietudine, e che suggerisce al contempo un'implicita riflessione sulla natura voyeuristica della settima arte.
Movieplayer.it
3.0/5