Recensione La palestra (2012)

Dall'evoluzione di un progetto pensato per raccontare la realtà dei rom del suo quartiere, il regista Francesco Calandra trae un'interessante docu-fiction, che unisce all'approccio meta-cinematografico una gustosa e ironica riflessione sul mestiere del cinema.

Pescara, estate 2007. Nel quartiere di San Donato, alla periferia della città, il giovane regista Francesco Calandra sta lavorando a un film che racconti il mondo dei rom e la loro convivenza col resto della popolazione. In quella che è nota come "la città degli zingari", visto che furono proprio questi ultimi a popolarla per primi, tra i rom e i gagè ci sono separazione e sospetto reciproco: pochi i contatti, pochissime le occasioni di scambio, molta l'ignoranza dettata da pregiudizio. In questo contesto, e specie in quello di un quartiere difficile e abbandonato all'incuria, nasce il progetto del regista: un laboratorio cinematografico che unisca rom e gagè, per un'opera di fiction che racconti il tormentato amore tra due ragazzi delle rispettive comunità.

I problemi, però, sono da subito notevoli: il ruolo della giovane rom resta vacante per l'impossibilità di trovare un'attrice adeguata, mentre i due attori protagonisti, entrambi rom, iniziano a contestare la sceneggiatura trovandola poco realistica. Il progetto è in alto mare, e il regista si trova a interrogarsi su quanto lui stesso, di fatto, conosca del mondo che si accinge a raccontare. Il piccolo finanziamento che dovrebbe essere stanziato per il film, promesso da un politico locale, è a questo punto a rischio; il regista, intanto, si trova ad affrontare anche l'ostracismo della famiglia, convinta che la sua attività non rappresenti un lavoro "serio". A Calandra, tuttavia, si apre a un tratto, forse, un'insperata soluzione ai suoi problemi: e ciò succede quando inizia a frequentare la palestra gestita dal padre di uno dei protagonisti, autentico punto di incontro e di scambio tra le etnie che popolano il quartiere.

Un meta-racconto tra due mondi

Un'immagine del film La palestra di Francesco Calandra
Un'immagine del film La palestra di Francesco Calandra

Il progetto de La palestra, sviluppato dal regista Calandra e dalla compagna e co-sceneggiatrice Maria Grazia Liguori attraverso l'associazione GarageLab, è più che mai peculiare: un meta-racconto che descrive la propria evoluzione attraverso i radicali cambiamenti subiti; frutto dell'incontro, da parte del suo autore, con un mondo che lo ha costretto a rivedere i contorni della sua stessa opera. Il film, in una dimensione più piccola, e assolutamente indipendente, è un'operazione concettualmente simile a quella che Daniele Gaglianone fece per il suo La mia classe: analoghi gli intenti sociali alla base del progetto, simile la cronaca, attraverso le immagini, della sua stessa mutazione. Nella storyline principale del film, quella che ne costituisce l'ossatura, Calandra filma se stesso mentre cerca cocciutamente di portare a termine il film per come lo aveva concepito: una love story che metta il dito nella piaga delle discriminazioni e dell'incomunicabilità tra culture, aprendo contemporaneamente, attraverso la sua realizzazione, un nuovo canale di scambio e dialogo.

Quando, tuttavia, il progetto si scontra con una realtà più complessa e ostica di come il regista l'aveva immaginata, questi è costretto a un ripensamento: rendendosi conto di essere egli stesso vittima, in parte, degli stessi stereotipi che voleva stigmatizzare, e di essersi mosso, nel contesto, con una quantità di buone intenzioni pari solo alla mancanza di cautela. Un'opera di fiction, forse, non è più sufficiente, e si impone una riflessione sul "contenitore" più adeguato a raccontare quella realtà.

Docu-fiction e confini sfumati

La palestra: Francesco Calandra in una scena del suo film
La palestra: Francesco Calandra in una scena del suo film

Se si escludono le parentesi più strettamente di fiction, quelle che vedono il regista alle prese con una famiglia che lo scoraggia e lo incita a "trovarsi una fatica" (un lavoro), ne La palestra il confine tra realtà documentata e ricostruita è molto labile. Alla linea narrativa principale, a cui abbiamo appena accennato, si sovrappongono le interviste fatte da Calandra ad amici ed ipotetici colleghi, che gradualmente mostrano la portata del solco esistente, in realtà, tra lui e il mondo che si propone di raccontare. Capire quanto ci sia di reale, e quanto di rappresentato, in ogni singola scena del film, è difficile quanto a conti fatti superfluo: ciò che conta è la limpidezza nel narrare l'evoluzione, innegabile, di un progetto artistico-sociale, parallela a un'evoluzione personale e a una presa di coscienza. Volendo rappresentare il dialogo con una cultura tanto presente nel tessuto sociale, quanto irrimediabilmente "altra" (e per larga parte sconosciuta, filtrata da stereotipi fallaci quando non menzogneri) il film sembra voler sottolineare che questo non si raggiunge gratuitamente: serve un vero e proprio bagno di umiltà, l'azzeramento totale dei preconcetti (anche di quelli più progressisti e "tolleranti"), la totale disponibilità all'ascolto e alla ricezione. Solo quando il Calandra-personaggio trova, in modo apparentemente casuale, tale condizione materializzata nella palestra del titolo, allora il suo progetto può trovare un inaspettato compimento. La schiettezza e l'umanità trovata nel padre del suo amico, vecchio pugile e "maestro di vita" per i suoi allievi, gli fornisce la spinta per una nuova, e più stimolante, sfida.

La palestra: Francesco Calandra in una foto dal set del suo film
La palestra: Francesco Calandra in una foto dal set del suo film

L'ottimismo della volontà

Un'immagine del docu-fiction La palestra, di Francesco Calandra
Un'immagine del docu-fiction La palestra, di Francesco Calandra

Unitamente a ciò, La palestra ha anche un'evidente, e tutt'altro che inconsapevole, componente (auto)ironica. La sceneggiatura carica i momenti più marcatamente finzionali di toni da commedia, con un approccio lieve e, a tratti, piacevolmente stralunato alla materia. Sottotraccia è presente una riflessione, non banale, sul fare cinema, e sul ghetto a cui restano confinati, dal senso comune prima che da una legislazione inadeguata, i cosiddetti lavori creativi; ghetto che si sovrappone e si confonde con quello in cui sono costretti a vivere, loro malgrado, i rom rappresentati dal film. Nonostante il sostanziale realismo a cui è improntato, il film di Calandra restituisce comunque un approccio positivo e ottimistico alla materia: ognuno dei personaggi (il regista, la giovane sinta, l'istruttore e i ragazzi della palestra) ottengono infine ciò di cui hanno bisogno; anche se magari questo non corrisponde esattamente a ciò che loro stessi immaginavano.
E poco importa, in questo senso, se l'amalgama presentato dal film non è sempre perfetto, se lo "stacco" e il cambio di registro della parte conclusiva (più chiaramente narrativa) appare forse troppo netto, e se a volte lo sconfinamento di alcuni momenti più documentaristici nell'ironia più esplicita manca forse di controllo. Il film di Calandra risulta, alla fine, animato da un "ottimismo della volontà" che mantiene unite (e non è poco) esigenze di credibilità documentaria e racconto morale. Declinato, quest'ultimo, nel senso migliore del termine.

Conclusioni

Già passato in alcune manifestazioni indipendenti, e acquistabile in DVD (sul sito del film le informazioni per reperirlo) La palestra è un'opera interessante e ricca di utili spunti di riflessione; capace, senza perdere di vista l'intrattenimento, di gettare un po' di luce su un universo ancora troppo sconosciuto, oggetto di pregiudizi difficili da scalfire.

Movieplayer.it

3.0/5