Il dramma di un uomo perbene
Del Festival di Roma si può dire tutto, ma non che non sia al passo coi tempi. Mentre il mercato azionario italiano crolla, nella kermesse si susseguono pellicole dedicate alla crisi economica. In Une vie meilleure il regista Cédric Kahn affronta il problema sposando il punto di vista dei lavoratori dipendenti che tentano il salto di qualità provando a trasformarsi in piccoli imprenditori per vedere i loro soldi risucchiati dalle banche e dal sistema dei prestiti. Giuliano Montaldo preferisce immergersi nel mondo dell'alta borghesia industrale e capitalista. Anche qui le banche vengono additate come "cattivi" della storia, almeno nell'incipit del film che si apre con un incontro tra l'industriale Nicola Ranieri (Pierfrancesco Favino) e la finanziaria che ha deciso di negargli l'ennesimo prestito, necessario per ridare ossigeno alla sua ditta di pannelli fotovoltaici sull'orlo del fallimento. L'incontro, sontuosamente fotografato dalla macchina da presa mobile ed elegante di Montaldo, ci immerge nella vita di Nicola, nel suo essere imprenditore alla vecchia maniera, preoccupato (relativamente) per la sorte dei suoi operai per i quali rappresenta una sorta di padre/padrone, orgogliosamente distante dalla ricca e odiosa suocera alla quale basterebbe alzare un dito per garantirgli il fido.
Sullo sfondo di una Torino grigia e altera (bellissima la fotografia livida e desaturata di Arnaldo Catinari), che al suo interno contiene sacche di povertà e degrado sempre più estese, seguiamo la parabola del fallimento di Nicola che corre sul doppio binario, pubblico e privato. Al crack dell'azienda paterna corrisponde, infatti, una profonda crisi personale che si riflette inevitabilmente nel matrimonio con la comprensiva, ma distante Laura (Carolina Crescentini). Il mondo che Montaldo dipinge sullo schermo ha poco a che vedere con la realtà quotidiana che viviamo visto che la crisi economica, per quando profonda, si proietta in un universo fatto di macchine costose, ville da sogno, autisti, avvocati melliflui e adulatori, dialoghi affettati sull'eleganza nel vestire o sull'investimento più redditizio per ampliare un'azienda vinicola già miliardaria. Questo mondo è talmente distante e artificioso che i pochi personaggi appartenenti al quotidiano, gli operai che si recano dal padrone per avere garanzie sul loro stipendio o il garagista rumeno che corteggia Laura, sembrano alieni. L'incisiva rappresentazione dell'alta finanza priva di scrupoli e degli stratagemmi messi in atto per evitare di far fallire l'azienda rappresentano la parte più solida e interessante del film (da segnalare il guizzo geniale del sushi bar giapponese), ma progressivamente la dimensione privata prende il sopravvento facendo perdere lucidità all'opera e indebolendone il contenuto critico. Sarà che di mariti gelosi impegnati a pedinare la moglie ne abbiamo già visti a sufficienza mentre un focus sulla politica spregiudicata delle banche, in un momento storico come questo, è necessario e opportuno. Nei panni di Nicola, Pierfrancesco Favino è straordinario. Il suo lavoro di immersione nel personaggio, dai movimenti alla camminata fino al perfetto accento torinese sfoggiato, è paragonabile al risultato del "metodo" americano. Il cinema italiano ha tra le mani un attore di razza e l'esperto Giuliano Montaldo lo ha ben compreso caricando sulle sue solide spalle gran parte del peso del film. Al suo fianco Carolina Crescentini dimostra di essere un'interprete in crescita costante e non deludono neppure il bravo Francesco Scianna e il semi-esordiente Eduard Gabia. Questo quartetto si trova, però, isolato, circondato da un esercito di macchiette capitanate dalla madre di Laura, troppo odiosa per essere vera, e dagli 'strozzini legalizzati' che occupano banche, finanziarie e uffici del potere. Mentre coloro che provano in tutti i modi a difendere i propri principi vengono risucchiati dalle sabbie mobili della società italiana che li trascina verso il basso, i cattivi si crogiolano in un'aurea mediocritas che non riserva sorprese. Così sbilanciata e didascalica, la doverosa denuncia di un autore che ha scelto di sposare l'impegno civile, rischia di perdere vigore. La realtà italiana ormai supera di gran lunga la fantasia e non è necessario sovraccaricarla ulteriormente di simboli e stereotipi per farle assumere quei connotati grotteschi che già le appartengono di diritto.
Movieplayer.it
3.0/5