Recensione It's Me, It's Me (2013)

It's Me, It's Me, nuova opera dell'eccentrico Satoshi Miki, si segnala per un'interessante spunto iniziale, ma si rivela presto piuttosto esile nel "gioco" narrativo che mette in scena, con una riflessione sull'identità che avrebbe meritato un ben diverso contenitore.

L'identità frantumata

Hitoshi è un giovane impiegato di un negozio di elettronica, a cui a un certo punto riesce una singolare truffa: appropriandosi del cellulare lasciato incustodito da un suo coetaneo in un fast food, il ragazzo chiama la madre del malcapitato spacciandosi per suo figlio, e la convince a trasferire 900.000 yen sul suo (vuoto) conto corrente. Il problema è che, nel momento in cui Hitoshi incontra la sua vittima, accade l'inspiegabile: questa lo chiama Daiki e gli parla come se fosse davvero suo figlio. Inoltre, quando torna a casa, la sua vera madre non lo riconosce e lo tratta da estraneo. Tutti questi eventi portano il giovane a un singolare incontro, in cui si ritrova faccia a faccia con una copia di sé, che sostiene di essere il vero Hitoshi. A complicare ulteriormente le cose, arriva anche un terzo sosia dei due, molto più selvaggio e anarchico. Inizialmente sconvolto, Hitoshi pensa in seguito a girare la strana situazione a suo vantaggio, stringendo una singolare alleanza con le altre due versioni di sé: ma presto la situazione gli sfugge di mano, con l'incontro con altre sue copie "difettose", mentre la realtà lentamente sfuma nell'allucinazione.

Ha certo una sua singolare attrattiva, l'idea alla base di questo It's Me, It's Me, nuova opera di Satoshi Miki presentata nella quindicesima edizione del Far East Film Festival. Lo spunto iniziale, infatti, somiglia molto a quello di tante commedie (orientali e non) incentrate sullo scambio di persona; non ultimo quel Key of Life, sempre di produzione nipponica, che vedremo presto proprio a Udine. Miki, tuttavia, noto per il suo essere regista fuori dagli schemi, abbandona qualsiasi tentazione di verosimiglianza, fa deragliare anche la logica interna a un racconto fantastico, e gioca sempre più con l'effetto moltiplicazione. La realtà viene gradualmente trasfigurata in una dimensione onirica, i punti di riferimento saltano. La riflessione sull'identità, metà pirandelliana e metà kafkiana, viene sommersa da un gioco di soluzioni sempre più grottesche e pop, che stordiscono lo spettatore ma alla fine non celano del tutto una certa fragilità di fondo. Il problema principale del film di Miki, infatti, sta nell'aver voluto dilatare un'idea che poteva rappresentare un ottimo spunto per un cortometraggio, senza avere materiale narrativo sufficiente per giustificare una dimensione più consistente.
I primi minuti di It's Me, It's Me si fanno apprezzare, per come il regista inserisce la sua vena grottesca e surreale in un racconto di marca (inizialmente) realistica, facendo lentamente scivolare il tutto in qualcosa che somiglia sempre più a un'allucinazione. Differentemente da quanto accade in altri film di Miki, tuttavia, la vicenda qui narrata mostra presto la corda. Il gioco di moltiplicazione messo in scena dal regista inizia presto a stancare, giocato com'è su una reiterazione ad libitum che ha l'intento fin troppo scoperto di mascherare l'esilità dello spunto iniziale. Non basta la sequenza di eventi (un po' gratuitamente) grotteschi che coinvolgono il protagonista a dare sostanza alla storia, non basta un umorismo surreale un po' stantio, e già sviluppato (meglio) in tante altre opere analoghe, non basta l'abilità del giovane protagonista (l'idolo pop Kazuya Kamenashi) nell'interpretare, non senza una certa dose di divertimento, varie versioni dello stesso personaggio. Il messaggio che il film vuole trasmettere, soprattutto (una riflessione sull'identità nella società giapponese contemporanea) avrebbe meritato ben altro contenitore, e un trattamento diverso e di maggiore consistenza. La morale finale, poi, appare di una banalità sconcertante. Così, del film di Miki resta in mente soprattutto la curiosità (presto svanita) per l'idea iniziale, e qualche singola sequenza riuscita (i divertenti siparietti del protagonista nel suo posto di lavoro): abbastanza per farne una visione non del tutto indigesta, ma non per cancellare l'amaro in bocca per un'idea che, altrimenti sviluppata, avrebbe potuto generare esiti ben più interessanti e meno effimeri.

Movieplayer.it

3.0/5