Antoine è un musicista quarantenne che decide di smettere di suonare in seguito ad una grave crisi depressiva. Abbandona il palco dove avrebbe dovuto esibirsi, trascinando con sé un trolley. Senza lavoro, senza una casa, mollato dalla compagna, distrutto dalla dipendenza dalle droghe, trova miracolosamente un lavoro come portinaio in uno stabile antico di Parigi. Qui conosce Mathilde, una neo pensionata ancora piacente che cerca di occupare il suo tempo libero aiutando gli altri con opere di beneficenza non meglio identificate. I due diventano ben presto amici, confidenti; lui la supporta quando la donna decide di scendere in campo per impedire l'ipotetico crollo della palazzina, in verità una fobia sconsiderata, lei lo sostiene nei momenti più bui. Momenti che non abbandonano mai la vita di Antoine, ancora pericolosamente attratto dalle droghe.
Proviamo ancora una certa soddisfazione quando vediamo film che non hanno alcuna intenzione di prendere in giro il pubblico, proponendo storie artificiose e irreali; opere come Piccole crepe, grossi guai di Pierre Salvadori, presentato nella sezione Berlinale special al 64.mo Festival di Berlino. E' ingiusto parlare di prodigio, sia chiaro, ma il lavoro di Salvadori è un miracolo di equilibrio, una pellicola in cui amarezza e leggerezza si mescolano continuamente lasciando lo spettatore con un senso di nostalgia che non lo lascia per molto tempo.
Il portiere di giorno
Antoine, interpretato magistralmente dal regista e attore belga Gustave de Kervern (assieme a Benoît Delépine ha diretto il cult movie Mammuth), è un personaggio a cui ci si affeziona subito e non per l'aura da perdente che pare non abbandonarlo mai; è uno di quei caratteri scritti alla perfezione, partendo da pochissimi dettagli, come una maglia stropicciata o il capello arruffato, il tono di voce basso e i movimenti goffi. E' un pessimo bugiardo, brutta qualità per chi come lui invece ha bisogno di mentire per riuscire a vivere. Nella fisicità ingombrante di Kervern questa figura trova una forza incredibile, che viene trasmessa in ogni singola inquadratura.
Tra terzo e quinto piano
Mathilde, un'efficace Catherine Deneuve, è forse il personaggio più decifrabile della coppia, una donna che sente dentro di sé quelle crepe che vede tutti i giorni nel muro del soggiorno e che Salvadori utilizza, funzionalmente alla storia, come la compagna perfetta di Antoine, una signora apparentemente calma ed equilibrata ma che in un paio di uscite, come la visita alla sua casa d'infanzia, con relativa aggressione ai nuovi proprietari, rei di aver stravolto tutta l'abitazione, si mostra con la sua follia. Pur essendo un'opera discontinua, va riconosciuto a Salvadori il merito di aver portato a conclusione il film nella maniera più giusta, senza ammiccare a happy ending suggestivi ma fittizi, rispettando per prima cosa l'essenza dei personaggi. Attorno a quest'adorabile coppia di amici disfunzionali, il regista costruisce un mondo policromo, i cui confini, ben definiti, sono segnati dal cortile interno del condominio e in cui vivono figure che non diventano macchiette fastidiose, come l'architetto fobico che cerca di far rispettare il regolamento condominiale (Nicolas Bouchaud), il non vedente a cui Mathilde e Antoine leggono i giornali, monsieur Vigo (Bruno Netter), l'ex calciatore tossicodipendente (Pio Marmaï) e il religioso porta a porta che tenta disperatamente di convertire Antoine al culto di Zac, un alieno che arriverà sulla Terra per salvare tutti. Bisognerà attendere ancora per molto.
Conclusione
Va dritta al cuore l'opera di Pierre Salvadori, un film che non finge di essere ciò che non è e punta sulla bellezza e l'amarezza di due protagonisti complementari nelle rispettive fragilità, per conquistare nel profondo il cuore degli spettatori. L'equilibrio raggiunto dal regista è davvero notevole e se la crescente nostalgia che si prova al termine del viaggio dei due personaggi ha un valore, allora questo lungometraggio ha raggiunto il suo obiettivo.
Movieplayer.it
4.0/5