Recensione I corpi estranei (2013)

Sarà per la sua attitudine al linguaggio documentaristico o per l'abitudine ad affrontare personalmente una quotidianità poco magnanima, ma Mirko Locatelli riesce nel tentativo non scontato di costruire un impianto drammatico senza utilizzare le note alte del compiacimento, ma parlando di una fragilità comune con un sussurro capace di farsi comunque sentire chiaramente all'esterno.

Padri si diventa, uomini si nasce

Secondo alcuni, che purtroppo non rappresentano una minoranza, il cinema "doloroso" sembra destinato per sua stessa definizione a non riscuotere grande successo in sala. Tutto dipenderebbe, sempre a detta di questa audience pragmatica, dalla scarsa volontà da parte dello spettatore di uscire di casa, faticare nel trovare parcheggio e pagare il costo di un biglietto per uno spettacolo destinato a smuovere, quantomeno, una coscienza personale non sempre facile da sostenere. Sarà per questa pigrizia, probabilmente, che per molti anni il cinepanettone ha trionfato indisturbato al box office. Posto, però, che divertirsi con leggerezza non è certo un peccato mortale e che anche una commedia ben costruita ha il suo valore artistico, chi ha lasciato intendere che il cinema sia esclusivamente puro intrattenimento? Come qualsiasi forma d'arte, anche questa trae ispirazione dalla quotidianità, diventandone spesso lo specchio riflettente o, addirittura, anticipando situazioni e stati d'animo di proporzioni sociali. Perché da sempre il cinema, o una parte di esso, si è posto lo scopo di parlare con chiarezza al proprio pubblico senza indorare la pillola e conducendolo all'interno di un viaggio privato non sempre agevole. Può capitare, così, di trovarsi ostaggi volontari di un percorso narrativo che, partendo dal dolore, rifiuta qualsiasi enfatizzazione del concetto ponendo lo spettatore di fronte ad una realtà tanto imprevista quanto fin troppo vicina alle proprie esistenze.


Questo è il cinema, senza lirismi eppur poetico, pensato e creato da Mirko Locatelli con I corpi estranei. Sarà per la sua attitudine al linguaggio documentaristico o per l'abitudine ad affrontare personalmente una quotidianità poco magnanima, ma il regista riesce nel tentativo non scontato di costruire un impianto drammatico senza utilizzare le note alte del compiacimento, ma parlando di una fragilità comune con un sussurro capace di farsi comunque sentire chiaramente all'esterno. Per realizzare questa magia a sua disposizione ha solo due elementi, l'uomo e un escamotage narrativo che, apparendo all'inizio dominante, è destinato a trasportare la vicenda verso luoghi diversi. È così che Antonio, uomo rude e di poche parole, si trova a vivere da "straniero" tra le corsie di un ospedale pediatrico nella speranza di poter curare suo figlio da un cancro al cervello. Nonostante questa premessa piuttosto chiara, però, Locatelli utilizza il dolore solamente come un prologo, dirigendo la vicenda e il suo sguardo verso altri panorami. L'intento, evidente, è di non stigmatizzare la malattia né cadere con facilità nell'enfatizzazione del corpo "ferito". Anzi, evitando di attribuire un ruolo rilevante al soggetto solo in apparenza più fragile, attraverso il volto virile e strutturato di Filippo Timi il film prende la strada dell'introspezione e della scoperta delle umane mancanze.

Funzionale a questa visione è l'utilizzo dell'ospedale come un non luogo, una sorta di fermata forzata e obbligatoria in cui degli estranei si trovano improvvisamente accomunati dallo stesso scopo. Così, tra strenue resistenze e l'inevitabile contatto con chi è "straniero" in molti sensi, questo emisfero maschile impara goffamente che dietro la comunicazione e la condivisone non si celano certo i segni della debolezza. Anzi, andando oltre, Locatelli costruisce un piccolo universo di uomini spaesati, posizionandoli in un ambiente solitamente abitato da maternità più reattive e programmate al reciproco sostegno. Solo un padre solitario, dunque, poteva diventare l'elemento fondamentale con cui costruire il senso di estraneità ed impotenza che si prova di fronte ad eventi impossibili da controllare. Allo stesso modo, la muta diffidenza rappresentata da Timi conduce lo spettatore all'interno di una riflessione personale, vedendo nella sua chiusura la necessità generale di difendere uno spazio privato e la difficoltà di verbalizzare una richiesta d'aiuto come il più semplice gesto consolatorio. Tutto questo, oltre ai silenzi colmi di significato e una scelta estetica tanto raffinata quanto caratterizzata da un gusto realistico, fa de I corpi estranei un film che non lascia certo scampo ma che non cede a nessuna aggressione frontale o ricattatoria. Solo questo varrebbe la pena di un parcheggio e di un biglietto pagato.

Movieplayer.it

4.0/5