Roma 2013: la fragilità nei Corpi estranei di Mirko Locatelli

Dopo cinque giorni il Festival capitolino presenta in concorso il primo film italiano, un dramma toccante interpretato da Filippo Timi e Jaouher Brahim. Ecco la cronaca della conferenza stampa ufficiale.

" Come raccontare la malattia di un bambino e il dolore di un padre? Con quali immagini? Ecco le prime domande che mi sono posto scrivendo, come sempre insieme a mia moglie Giuditta Tarantelli, I corpi estranei ". Così il regista Mirko Locatelli parla della fase creativa del suo secondo lungometraggio, primo film italiano presentato in Concorso al Festival di Roma. Dopo molti documentari e la realizzazione de Il primo giorno d'inverno, il regista torna alla materia cinematografica con una vicenda umana delicata e straordinariamente naturale in cui un uomo viene messo di fronte ai propri limiti caratteriali e culturali. A dare il volto ad Antonio, uomo di poche parole e costantemente in chiusura nei confronti dell'estraneo, è Filippo Timi che, insieme a Jaouher Brahim, per la prima volta sul grande schermo, racconta la realtà di un microcosmo unito, anche non volendo, da un dolore muto e dalla necessità di un gesto consolatorio.

Locatelli, ci racconti come è nata questa vicenda in cui la malattia diventa un escamotage per raccontare la solitudine di un uomo? Mirko Locatelli: Siamo partiti da un immagine che mi ha sottoposto mia moglie. Arrivava direttamente dalla sua memoria e risaliva a vent'anni fa. Si trattava di un uomo solo con in braccio un bambino all'interno di un reparto di oncologia pediatrico. Da li abbiamo provato a immaginare e costruire una storia intorno a lui. In questo modo si spostava, con un certo pudore, l'attenzione dal bambino al padre mettendo in evidenza la fragilità dell'uomo e non il dolore. Perché, In un certo senso, i veri malati sono i genitori, ossia quelli che non vengono accompagnati e tutelati.
Giuditta Tarantelli: In queste occasioni i bambini, giustamente, hanno tutta l'attenzione mentre i parenti intorno al malato sono trascurati. Per questo i genitori vengono chiamati malati invisibili e subiscono un trauma molto simile a quello successivo a un forte terremoto. Nella mia memoria c'era un immagine molto forte che riguardava la solitudine del padre e della costruzione di un guscio protettivo in cui aveva rinchiuso sé stesso e il figlio.

Timi, lei ha dovuto affrontare una doppia sfida, ossia lavorare con un bambino e costruire un personaggio rude chiuso al mondo. Come ha costruito il carattere di Antonio? Filippo Timi: Ricordo che a sei anni mi portarono a Pisa perché zoppicavo e mi regalarono la prima scatola dei Lego. In realtà, più o meno verso i trent'anni, ho scoperto che si temeva avessi un tumore alle ossa. Di quel momento io ricordo solo la contentezza del viaggio e lo stupore di fronte a tutto quello che accadeva in ospedale. E non ho mai percepito la difficoltà dei miei genitori. Leggendo la sceneggiatura del film, invece, mi sono trovato proiettato direttamente dall'altra parte. E in quel territorio è impossibile recitare il dolore. L'unica cosa che ho provato a fare è chiudere la porta di quel sentimento. Considerate che con un bambino non è possibile fingere, bisogna avere con lui una relazione vera e onesta. Al piccolo non gliene frega niente del motore, dell'azione e del ciak. Non mi sono mai preoccupato di recitare. Il che è un bel approccio. Non mi piacciono quelli che dimostrano quanto sono bravi.
Mirko Locatelli: Per aiutare Filippo ho chiesto ai miei assistenti di non togliere mai il bambino dalle sue braccia quando piangeva. Volevamo dargli un elemento in piu per vivere fino in fondo quel momento.

Com'è stato reggere la vicenda praticamente da soli? Filippo Timi: Non me ne sono accorto. Non mi preoccupo di questo. Mi piace raccontare una storia o meglio, sentire che una vicenda mi parla in modo personale. Questo è già un regalo, il poter spendere del tempo e i propri pensieri. Questo è quello che mi occupava totalmente. Poi, avere una camera puntata addosso è un caso.

Il personaggio di Antonio è caratterizzato da un accento umbro molto forte. Perché é stata utilizzata questa particolarità linguistica? Filippo Timi: Mirko voleva che tutti e due i personaggi fosse immigrati, tanto per sottolineare il viaggio. Ed anche un umbro fuori dal suo territorio si sente spaesato. Tanto per sottolineare il viaggio. Poi si tratta del mio ceppo. Lo conosco, mi piace ed è la prima volta che lo uso in modo così preciso.

Jaouher, a te è stato affidato il compito di interpretare Youssef, un ragazzo arabo che assiste un suo amico nello stesso reparto oncologico in cui è ricoverato il figlio di Antonio. Quali direttive ti ha dato il regista per affrontare la tua prima prova da attore? Jaouher Brahim: Mirko mi ha raccontato la storia. Conoscevo la malattia che chiamano cancro ma non sapevo che non si potesse guarire. Inoltre ho scoperto anche il mondo delle famiglie e del loro dolore.

Ad un certo punto Youssef accarezza il piccolo Pietro con un olio balsamico che sembra aiutarlo nella guarigione. Quale significato assume questo gesto? Mirko Locatelli: A noi interessava quel contatto perché il ragazzo cerca un mezzo per entrare in contatto con Antonio. Anche lui vuole un briciolo di consolazione.
Filippo Timi: In quel momento succede una magia. Antonio, umbro, chiuso, grezzo che non si apre al mondo, grazie a quel contatto e a quel profumo è costretto ad affrontare una cultura diversa.