Hannah Arendt rappresenta una sintesi perfetta della femminilità portata fino a ora sullo schermo da Margarethe von Trotta in film come Rosa Luxemberg, Rosenstrasse e Anni di piombo
Accanto alla letteratura, il cinema è sicuramente il mezzo espressivo che più si è messo a disposizione del ricordo della Shoah ricostruendo un lungo percorso in cui si è cercato di comprendere e ricostruire la sconfitta di chi veniva espropriato della sua dignità di uomo. Attraverso film come Il diario di Anna Frank, Schindler's List, Train de vie - Un treno per vivere, La tregua, La vita è bella, e Il pianista, il tema è stato sviscerato, destrutturato e poi ricomposto sempre senza perdere di vista la necessità di farsi testimoni e documentatori del dolore e della brutalità. Ma a quasi settant'anni di distanza è possibile trovare un nuovo punto di vista, un'angolazione diversa capace di dare modernità a un racconto che sta forse perdendo vigore sotto il peso di una retorica dell'immagine? La risposta positiva viene da una regista senza mezzi termini come Margarethe von Trotta e dalla sua scelta di portare sullo schermo la figura discussa della filosofa ebrea Hannah Arendt capace di scuotere con la teoria de La banalità del male la sua comunità durante i primi anni sessanta. Tutto questo per dimostrare che è possibile mantenere intatta l'importanza dell'evento uscendo fuori dalla ricostruzione del campo di concentramento e raccontare la Shoah attraverso la forza del pensiero anche e soprattutto durante il Giorno della Memoria.
Identikit di una mente libera
Chi è Hannah Arendt? Domanda legittima per molti, almeno per chi non ha frequentato il pensiero filosofico del novecento. Ma è un interrogativo che ha accompagnato anche chi ha condiviso con lei vita, lavoro e percorso intellettuale perché una personalità come la sua, dotata di una naturale indipendenza e indurita dalle "necessità" della guerra, non appartiene a nessuna definizione. I biografi potrebbero ricordarla semplicemente come una filosofa tedesca formatasi alla scuola di Martin Heidegger e poi costretta alla fuga in Francia e negli Stati Uniti dalla persecuzione del nazismo. Per il suo entourage, invece, era una donna volitiva, a volte strafottente ma anche dotata di grande senso dell'umorismo e sempre in lotta con la sua fragilità di esule. Accanita fumatrice e insegnante appassionata, da molti veniva definita come "Il genio dell'amicizia", eppure, nonostante tanta dedizione, furono proprio i legami più cari a abbandonarla dopo la pubblicazione della sua teoria rivoluzionaria sul New Yorker. Per gli ebrei esuli in America e per l'intera comunità si era macchiata del disonore di non aver "condannato" a prescindere un criminale nazista come Adolf Eichmann e di aver, prima di tutto, voluto capire cosa si celasse dietro il male. Ma, più di ogni altra cosa, aveva rinunciato a rappresentare lo sdegno della vittima, si era tolta l'etichetta di ebrea perseguitata e aveva lasciato che a rappresentarla fosse prima di tutto una mente priva di appartenenze.
Le donne di Margarethe von Trotta
Da Il caso Katharina Blum, passando per Anni di piombo fino a Rosa Luxemburg e Rosenstrasse le donne sono state sempre figure centrali nella narrazione della von Trotta, attratta da personaggi sia discutibili che eroici ma mai silenti e battuti. E in un certo senso, guardando indietro a questa filmografia, la Arendt rappresenta una sintesi perfetta della femminilità portata fino a ora sullo schermo dalla regista. Combattiva, criticabile, lucida, divisa tra pensieri e emozioni tanto da dover separare nettamente l'intelletto dai sentimenti; questa era la Arendt è questo ha rappresentato per la von Trotta un terreno di sfide stimolanti che, andando oltre la fascinazione evidente nei confronti del personaggio, l'ha posta di fronte al dilemma di rendere cinematografica la filosofia. Così, nel tentativo di creare empatia con il pensiero finale in cui la scoperta della sciatta mediocrità della malvagità non sminuisce certo l'orrore della "pulizia etnica", la regista lascia allo spettatore tutto il tempo di comprendere e conoscere Hannah nelle sue fragilità personali come nel rapporto libero con il marito, nel ruolo di amica e compagna di vita. Così, attraverso una ricostruzione temporale parziale la regista si affida all'interpretazione di Barbara Sukowa che, capace di farsi guardare dalla telecamera anche nel silenzio della riflessione, concede al personaggio la libertà di muoversi nel suo ambiente "casalingo" senza imporle una patina di perfezione asettica.
Perché una donna può essere una lucida pensatrice, teorizzare sul totalitarismo e, allo stesso tempo, lasciarsi trasportare dalle forti passioni della propria natura. Ma, soprattutto, perché Hannah Arendt era un essere umano libero da preconcetti e per questo tutto poteva essere.