Recensione Fino a qui tutto bene (2014)

Cinque amici lasciano la casa dove hanno condiviso sogni e paure di universitari, il futuro è incerto, ma nessuno ha intenzione di mollare. Anzi cominciano remare tutti nella stessa direzione. Almeno ci provano.

Ingenui? Naif? Sopra le righe? Anche stralunati e indecisi, ma pieni di risorse inaspettate. Sono i cinque protagonisti dell'opera seconda di Roan Johnson, Fino a qui tutto bene, presentata al Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione Prospettive Italia. Un film che, a dispetto di tutto, rappresenta un piccolo miracolo, viste le condizioni che ne hanno favorito la realizzazione. Tutto nasce con un documentario commissionato al regista dall'Università di Pisa per raccontare la vita dell'Ateneo; poi sono arrivate le interviste agli studenti e l'idea, fulminea e folle, di raccontare proprio loro, i sogni, le speranze disattese, i pasticci combinati in nome dell'amicizia e dell'amore.

Con Ottavia Madeddu al suo fianco Johnson imbastisce uno script in cui un gruppo di studenti si appresta a lasciare la casa in cui hanno vissuto gran parte della propria giovinezza, per diventare grandi, spiccare il volo, prendere il largo, scegliete la metafora che vi piace di più. In un fine settimana epocale, Vincenzo, Paolo, Ilaria, Andrea e Francesca si trovano a condividere una serie di problemi (una gravidanza inaspettata e un altrettanto inaspettato trasferimento in Islanda per diventare professore associato di vulcanologia) con la certezza che tutto, da quel momento in poi, dovrà cambiare.

Evviva la torre di Pisa!

Fino a qui tutto bene: una scena del film
Fino a qui tutto bene: una scena del film

Il fatto che un film sia autoprodotto, peraltro con un budget ridotto all'osso e realizzato grazie alla collaborazione di tutto lo staff creativo che lo ha ideato non vuol dire che il risultato finale debba essere mediocre e banale. E Fino a qui tutto bene ne è la dimostrazione. Nato sull'onda delle emozioni scaturite da un documentario girato sugli universitari di Pisa, il lavoro di Johnson è un allegro e scanzonato viaggio in quella delicatissima fase della vita che coincide con la fine dello status di studenti; chiusi i libri, verbalizzati gli ultimi esami, completata la bibliografia della tesi, cosa serve ancora per diventare degli adulti responsabili? Il regista risponde al quesito senza lasciarsi prendere la mano da riflessioni troppo ponderose, riuscendo tuttavia a parlare di temi molto importanti con leggerezza e affetto.

Fino a qui tutto bene: Alessio Vassallo in una scena del film
Fino a qui tutto bene: Alessio Vassallo in una scena del film

Il ritratto generazionale offertoci da Johnson non ha quell'incisività che resta impressa nella testa, non ha ambizioni sociologiche e non aspira a diventare un cult; è uno schizzo, un bozzetto che però possiede calore e verità. Non è il genere di realismo che emerge dalla tipica casa disordinata, con la cucina sporca di caffè e i piatti finiti, chissà come, nella doccia. Questi sono elementi che ovviamente ci vengono forniti tutti, ma che non sono essenziali. Essenziale è il non detto, la paura di un futuro che non dà più alcuna certezza, il timore che realizzare i propri sogni possa equivalere ad accettare dei compromessi, il terrore di non accorgersi che uno dei tuoi amici sta male a tal punto da volersi uccidere.

Che cos'è il genio?

Non serve a molto affrontare certi argomenti, crisi economica, fuga di cervelli, mancato riconoscimento delle proprie capacità, senza quella sana ironia che ti fa simpatizzare con i personaggi; è un principio basilare di una commedia che Johnson riesce a far suo senza esitazioni. La morte dell'amico Michele, quindi, pone una serie di interrogativi angosciosi sull'effettiva percezione del suo disagio, ma lascia spazio a qualche battuta, la ronda notturna a casa dell'amante di Francesca, e padre della creatura che porta in grembo, viene celebrata "catarticamente" con una scorribanda in un campo (e con un incontro ravvicinato del quarto tipo con un'anguria); allo stesso modo i dialoghi sull'amore e le relazioni, sulla libertà della coppia e sul lavoro, lasciano intravedere delle problematiche molto profonde, che si risolvono sempre in un battibecco divertente.

Il regista dunque segue la sua naturale inclinazione alla leggerezza confezionando un film che, pur con qualche pausa, trova la sua forza nella scrittura brillante, nell'affetto sincero che traspare dalla descrizione dei personaggi, nella piena aderenza dei giovani attori, Melissa Anna Bartolini, Guglielmo Favilla, Silvia D'Amico, Paolo Cioni e Alessio Vassallo ai rispettivi caratteri. Il risultato ci lascia quindi soddisfatti e anche se ci troviamo di fronte ad una piccola opera, riusciamo a percepirne la sua insita "grandezza". Perché non è cosa semplice riuscire a parlare di ragazzi senza sembrare concilianti e stucchevoli o, al contrario, eccessivamente severi. Johnson ha messo il suo sguardo alla stessa altezza dei protagonisti, quasi fosse uno di loro. E in un certo senso è davvero così.

Fino a qui tutto bene: una scena di gruppo tratta dal film
Fino a qui tutto bene: una scena di gruppo tratta dal film

Conclusione

Fino a qui tutto bene: Paolo Cioni con Guglielmo Favilla sul set del film
Fino a qui tutto bene: Paolo Cioni con Guglielmo Favilla sul set del film

Non sempre Roan Johnson riesce a manifestare, o meglio a sviscerare quella complessità che si cela dietro alle storie del quintetto, come se i problemi fossero chiari, ma le soluzioni no, e questo in parte impedisce la piena riuscita di Fino a qui tutto bene, ma l'entusiasmo espresso da questo mucchio selvaggio che non molla, che magari persevera nella cazzata, è unico. E quando sa osare un po' di più, come nella bellissima sequenza finale, con i nostri eroi al largo, impegnati a capire dove andare e come farlo per rimanere vivi, dimostra di avere occhio registico e acume.

Movieplayer.it

3.0/5