Elogio dell'autolesionismo
Chi ha mai stabilito che il cinema d'autore debba essere ermetico, inutilmente articolato dal punto di vista estetico e, soprattutto, emotivamente sterile? Se riflettiamo per pochi secondi sul lavoro svolto da grandi autori come Fellini, Monicelli, De Sica, Rossellini e Rosi riconosciamo ad ognuno di loro un tocco personale, uno stile inconfondibile espresso in scelte di regia come nello stile narrativo, ma tutti, allo stesso modo, hanno intrecciato con il pubblico un dialogo così stretto da durare nel tempo. Alla base di questo rapporto fatto di emozioni e suggestioni, c'è una considerazione profonda non solamente del proprio lavoro ma, soprattutto, degli spettatori cui consegnare una visione personale nella speranza che diventi universale. Una possibilità che Paolo Franchi non ha minimamente preso in considerazione, definendo il suo E la chiamano estate come un'opera egoistica, dove la personalità dell'artista straborda senza regola e senso della misura, utilizzando il film come un palcoscenico su cui esibire "talenti" e conoscenze. Per questo motivo, ad entrare nell'occhio del ciclone della critica non è certo la tematica sessuale che, onestamente, non stupisce e scandalizza più nessuno, ma la forma e lo scopo del lavoro. Privato delle immagini volutamente sfocate, della luce abbagliante e dei lunghi piano sequenza che dovrebbero rappresentare l'autorialità, al film non rimane altro che un cuore narrativo piuttosto semplice, in cui due protagonisti si confrontano giornalmente con la difficoltà di un amore incompleto.
Dino non riesce a provare per la donna che ama alcun desiderio sessuale, mentre sfoga all'esterno i suoi bisogni rasentando la maniacalità. Anna, da parte sua, accetta questo rapporto a metà con una forma di autolesionismo fisico e sentimentale. Tutto questo fino a quando, scoprendo il lato oscuro dell'uomo, non decide di abbandonarlo ad un destino segnato. Dunque, senza andare a scomodare Il bell'Antonio di Bolognini, ci troviamo ancora una volta di fronte a quella frattura interiore tra sentimento e puro desiderio che Steve McQueen ha fotografato con raffinata durezza in Shame, imponendo allo spettatore un viaggio intimo e sconvolgente. Una profondità di cui Franchi non è capace, perdendo di vista, dietro una costruzione temporale scomposta e la pesante ripetizione di situazioni e parole, la necessità di mettere dell'anima in questa storia. Preso da una celebrazione personale e dalla necessità di dimostrare la sua abilità con fotografia e montaggio, compone un'estetica sempre eccessiva dove i sentimenti non trovano mai il giusto spazio per esprimersi. Anzi, ripiegato su sé stesso, costantemente disinteressato all'esterno, non riesce ad amare nemmeno i suoi personaggi, costringendoli ad un'esistenza dove non sono previste soluzioni o reazioni, ma solo un lento arrendersi alle proprie miserie. Per questo motivo Isabella Ferrari e Jean-Marc Barr vengono trasformati in corpi vuoti, casse di risonanza attraverso le quali non passa alcun suono, rendendo la nudità, come l'atto sessuale, privi di qualsiasi significato. A complicare il tutto si aggiungono primi piani interminabili, carrellate dalla lentezza inesorabile, voci fuori campo e lunghi momenti di sospensione in cui nulla accade dal punto di vista dell'azione e nell'evoluzione dei personaggi. Se, poi, si aggiunge una sceneggiatura dai dialoghi allo stesso tempo pretenziosi e involontariamente comici, si ottiene il profilo di un film che vuole ottenere troppo dal pubblico senza essere disposto a dare nulla in cambio. Da parte sua, Paolo Franchi rifiuta, poi, ogni responsabilità e, ben protetto dietro nozionismi e teorie filosofiche, attribuisce alla poca conoscenza di altri l'incomunicabilità di non film che non racconta e non emoziona. Un errore, questo, grossolano per un regista che mira all'autorialità. Perché non si dovrebbe mai dimenticare che il cinema deve divertire, far riflettere, sollevare una discussione o commuovere, ma non può mai permettersi il lusso di far sentire lo spettatore inadeguato.
Movieplayer.it
2.0/5