A prima vista, non potrebbero sembrare più lontani due film come La legge del mercato e Une vie (A Woman's Life il titolo internazionale). Nel primo, presentato l'anno scorso al Festival di Cannes e premiato per l'interpretazione di Vincent Lindon, il regista Stéphane Brizé si calava nel nostro presente, nella durissima realtà del mercato del lavoro e nella quotidianità di un uomo comune impegnato a far quadrare i conti del bilancio familiare; nel secondo, proiettato in Concorso al Festival di Venezia, Brizé porta sullo schermo il primo romanzo di Guy de Maupassant, pubblicato a puntate nel 1883.
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Ma a dispetto della distanza fra la letteratura realista francese del diciannovesimo secolo e il dibattito sulle condizioni lavorative dell'odierna lower class, in Une vie è comunque riconoscibile l'impronta ben precisa del regista e sceneggiatore di Rennes, il quale propone una "rilettura per immagini" dell'opera di Maupassant che prende nettamente le distanze dalle caratteristiche del feuilleton, ricollegandosi invece a una riflessione più ampia sul rapporto fra individuo e società e sulla natura difficilmente controllabile delle sorti umane, in balia di inesorabili rovesciamenti di fortuna.
La vita di Jeanne
Quei capovolgimenti, perlopiù terribili e improvvisi, che scandiranno l'esistenza di Jeanne Le Perthuis (Judith Chemla), unica figlia ed erede di un ricco proprietario terriero (Jean-Pierre Darroussin) destinata ad un matrimonio combinato con il Visconte Julien de Lamare (Swann Arlaud). Ma l'idillio romantico con Julien, con il quale Jeanne vive in una solitaria tenuta aristocratica in Normandia, avrà breve durata a causa delle ripetute infedeltà del consorte, pronto a tradirla prima con la timida serva Rosalie (Nina Meurisse) e poi con la più disinibita Gilberte (Clotilde Hesme), moglie di Georges de Fourville (Alain Beigel) e intima amica di Jeanne. Nel frattempo la giovane donna si prende cura dell'amatissimo figlio Paul (Finnegan Oldfield), il quale però, una volta diventato adulto, deciderà di distaccarsi dall'oppressivo affetto materno, abbandonandosi a vizi e scelte sconsiderate.
Rispetto al corposo romanzo di Maupassant, che come indica il titolo copre l'intera vita di Jeanne, Stéphane Brizé non solo restringe l'arco della narrazione a un periodo più contenuto, ma soprattutto 'asciuga' quanto più possibile la materia di partenza, declinandola all'interno di un film in cui il principale veicolo del racconto sono invece le immagini. Pertanto, se da un lato Une vie mantiene una costante consapevolezza della propria origine letteraria, rimarcata da Brizé soprattutto attraverso l'espediente delle lettere recitate con la voce fuori campo, dall'altro la modalità d'espressione privilegiata per le emozioni dei personaggi risiede altrove: nei primi, talvolta primissimi piani dei protagonisti, a partire dal volto diafano e sofferente di una magnetica Judith Chemla (la quale regala una prova magnifica), e nel contrasto ricorrente fra gli interni oscuri e claustrofobici e quegli esterni che si aprono al sole come alla pioggia, all'irruenza del vento e alla meraviglia dell'oceano.
Il dramma fuori scena
L'altro grande elemento di fascino della pellicola di Stéphane Brizé va individuato in una drammaturgia che non si lascia imbrigliare dalle convenzioni della "letteratura filmata". Non è casuale, in tale prospettiva, che in Une vie il dramma si consumi puntualmente fuori scena: perché a Brizé, e questo è evidente fin da subito, non interessano tanto gli eventi in sé quanto il loro impatto sull'esistenza della protagonista. E così tutti i principali accadimenti sono relegati oltre la cornice dello schermo (un formato in quattro terzi che contribuisce ad alimentare l'atmosfera di costrizione e di soffocamento), i raccordi fra le parole e le immagini risultano spesso sbilanciati e stranianti, quasi a voler creare una "voce interiore" per Jeanne, mentre perfino il tragico esito del tradimento compiuto da Julien e Gilberte è sintetizzato in una manciata di fotogrammi raggelanti. Un'impostazione volutamente antispettacolare che Brizé persegue dalla prima all'ultima sequenza con un rigore impeccabile, rifiutandosi di concedere appigli allo spettatore ma al contrario calandolo fino in fondo nella sofferenza senza vie d'uscita di Jeanne, avviata lungo un percorso di progressiva autodistruzione in cui gli affetti più prossimi e solidi riveleranno risvolti ineluttabilmente ingannevoli.
Fedele al lucido pessimismo di Maupassant, alla sua visione disperata tanto della condizione della donna nella Francia dell'Ottocento quanto dei condizionamenti della posizione sociale e del denaro su tutti i rapporti umani, Brizé inchioda la sua protagonista ad un morboso meccanismo di coazione a ripetere. Concedendo però un tardivo barlume di speranza, a lei come al pubblico, in una scena conclusiva che suggella con un'insolita nota di letizia il carattere ambivalente di quella vita che, nelle parole di Rosalie (e di Maupassant), "non è né così bella né così brutta come si crede".
Movieplayer.it
3.0/5