Recensione Death March (2013)

Alix jr. immerge i suoi personaggi in uno scenario manifestamente artificiale, tra fondali di cartone e sacchetti di plastica al posto dei corsi d'acqua, con tanto di effetti sonori posticci e bombardamenti "artigianali", e dispone dei suoi interpreti in maniera fortemente teatrale. L'effetto straniante è cercato, e serve a mettere le sofferenze umane in primo piano.

Al passo del nemico

Nell'aprile del 1942, l'esercito imperiale giapponese scrisse una delle pagine più sconvolgenti della storia del secondo conflitto mondiale. Dopo aver vinto la lunga ed estenuante battaglia di Bataan, infatti, le truppe nipponiche non erano preparate a gestire la responsabilità dei circa 80.000 prigionieri, filippini e americani, da trasferire da Bataan al campo di prigionia di Camp O'Donnell. La scelta degli alti ufficiali, quindi, fu quella di trasferirli a piedi, affamati, feriti ed esausti, per 80 miglia, tra sofferenze indicibili e una quantità di decessi che non è mai stato possibile quantificare.

Questi sono gli orrori che sceglie di rievocare, in maniera originale e accorata, il regista filippino Adolfo Alix Jr. nel suo Death March, presentato a Cannes 2013 nella selezione Un certain regard. All'opera bisogna riconoscere un certo ardire: Alix jr., infatti, immerge i suoi personaggi in uno scenario manifestamente artificiale, tra fondali di cartone e sacchetti di plastica al posto dei corsi d'acqua, con tanto di effetti sonori posticci e bombardamenti "artigianali", e dispone dei suoi interpreti in maniera fortemente teatrale. L'effetto straniante è cercato, e serve a mettere le sofferenze umane in primo piano.
Peccato che al servizio di questa idea non ci sia uno script capace di dare autenticità e forza narrativa al dramma, che finisce in questo modo per essere la storia raccontata dalle persone sul set, e non quella storia rappresentata. Il regista filippino, inoltre, ha il vezzo di utilizzare sequenze dilatate all'inverosmile, con un effetto di pathos forzoso che non aiuta una pellicola che chiede tanto sforzo di immaginazione ai suoi spettatori.
Certamente ambizioso nelle premesse, Death March avrebbe avuto bisogno di una maggior cura soprattutto in fase di scrittura - è davvero poco inspirata ed eccessivamente frammentaria la sceneggiatura di Rody Vera - per poter diventare qualcosa di più che una semplice curiosità da festival.

Movieplayer.it

2.0/5