Recensione Bleak Night (2010)

Con il suo film di diploma, il ventinovenne coreano Yoon Sung-Hyun ci regala n vivido ritratto dell'amicizia, della gelosia, della paura al tempo dell'adolescenza, intriso della delicata sensibilità del cinema orientale.

La notte desolata dell'amicizia

Quando un'amicizia si spezza, non è mai facile. Specie se intorno a quell'amicizia avevamo costruito le nostre certezze, perché su altre cose non potevamo contare, e specie se quell'amicizia ci rendeva più sopportabili gli anni difficili dell'adolescenza. Un'amicizia così era quella che univa Ki-Tae, Dong-Yoon e Hee-June, e che il regista coreano Yoon Sung-Hyun mette al centro di Bleak Night, sua opera prima, che è in realtà il suo lavoro di diploma, e che testimonia ancora una volta l'altissimo valore del cinema d'oriente.

Yoon si serve della figura del padre di Ki-Tae e della sua ricerca delle cause che hanno portato alla morte del figlio per ripercorrere il rapporto che univa i tre amici, nei suoi momenti più belli e spensierati ma anche e soprattutto in quelli di contrasto, destinati a separarli per sempre. E' un racconto che gioca con i piani temporali, andando avanti e indietro nella storia comune dei protagonisti e che, se all'inizio può creare una certa confusione nello spettatore, con l'avanzare della narrazione si rivela un utile espediente per collegare cause e conseguenze, azioni e reazioni che hanno condotto alla tragedia. Tragedia che non è mai esplicitata a parole, così che non sapremo mai quale sia la vera causa della morte di Ki-Tao, ma che si delinea sempre più inevitabile man mano che si va a fondo nell'esplorazione del mondo dei protagonisti, interpretati da tre volti ben noti in patria come Lee Je-Hoon, Seo Jun-Yeong e Park Jung-Min.

Il regista è abile nel non stereotipare i propri protagonisti nei ruoli classici del dramma adolescenziale, creando tre personalità ben delineate e dalla forte umanità. Il bullo, quello che siamo abituati a considerare come il più forte del gruppo, nasconde in realtà una fragilità che lo porterà a subire la punizione più grande, e, allo stesso modo, la vittima designata saprà dimostrarsi più forte dei propri persecutori, il paciere si costringerà ad essere inflessibile. Non ci sono buoni e cattivi assoluti, ad ognuno è assegnata la propria parte di responsabilità e, nonostante il film non faccia nessuno sconto nel metterci davanti alla meschinità a cui può arrivare un ragazzo ferito e deluso, quella meschinità non la si riesce a condannare fino in fondo, talmente è evidente il suo essere il frutto di una debolezza a cui nessuno ti prepara. Non è un caso che, per tutto il tempo che passiamo insieme ai tre ragazzi, non un adulto entri in scena, e uno dei rari sfoghi di Ki-Tao, generalmente così reticente nell'esprimere i propri veri sentimenti, verta proprio sull'assenza di una figura di riferimento, di quel padre che solo troppo tardi si preoccupa di comprendere l'insospettata sofferenza del figlio.
L'abilità del regista nel descrivere l'universo chiuso su se stesso dei tre amici sta anche nella scelta dei luoghi, ognuno chiamato a rappresentare un diverso significato e un diverso momento della loro amicizia: la vecchia stazione ferroviaria, in cui i ragazzi si ritrovavano a giocare a baseball e a parlare di ragazze, la scuola, teatro di scontro e palcoscenico per sancire le gerarchie del gruppo, le panchine di fronte a casa di Dong-Yong, luogo della resa dei conti, degli aut-aut. Allo stesso modo, gli scorci urbani plumbei, i colori desaturati, l'atmosfera opaca, pesante che sembra intrappolare i protagonisti in un groviglio di confusione e tristezza contribuisce a suggerire l'idea di un mondo ostile, che sarebbe possibile affrontare solo restando insieme.

Yoon Sung-Hyun debutta quindi sulla platea internazionale con un'opera emozionante, delicata e dura insieme, che convince per la sua sensibilità e per la sua cura dei dettagli, per lo sguardo umano e sincero che dedica ai suoi protagonisti, e che esplora l'amicizia, il rimpianto, il senso di colpa con la forza espressiva, mai esibita, mai urlata, e proprio per questo totalizzante, che abbiamo sempre amato nel cinema coreano.

Movieplayer.it

3.0/5