Recensione Au nom du fils (2012)

Nel complesso la commedia nera di Lannoo funziona, strappa anche qualche risata per il modo oltraggioso e amorale di rendere il problema, prendendosi i suoi rischi con coraggio, ma non riesce ad entrare sotto pelle.

Croce sul cuore

Prendete la speaker di una radio religiosa, una specie di Radio Maria e immaginatela nei panni di una spietata serial killer che uccide preti pedofili e otterrete Au nom du fils, secondo lungometraggio del belga Vincent Lannoo, presentato al Torino Film Festival nella sezione After Hours. E' logico rimanere spiazzati davanti ad un assunto del genere, ma la pellicola spiega dettagliamente i motivi del profondo cambiamento che avviene nel cuore della donna. Elizabeth (Astrid Whettnall), infatti, è una signora dall'aspetto mite e la voce suadente che ogni giorno conforta gli ascoltatori della sua emittente e risponde alle domande più spinose in materia di fede. Al suo fianco c'è Padre Achille, un prete corpulento che la supporta in questa vera e propria missione sul campo. Vive a casa della donna e in poco tempo diventa un punto di riferimento per i figli più piccoli, Albert e soprattutto Jean-Charles, un quattordicenne piuttosto confuso che cerca conferme sulla propria identità sessuale giocando a fare il soldato con gli amici del padre, un'associazione di religiosi psicopatici che si allena nei boschi a uccidere il nemico islamico. Il ragazzino è in realtà attratto dagli uomini e inizia con Padre Achille una relazione. Alla morte del padre, avvenuta durante una delle folli esercitazioni, Jean-Charles confessa alla madre la verità sul suo legame con Achille, nel frattempo allontanato dalla diocesi. Davanti al mancato perdono, si toglie la vita. Per la donna inizia un incubo senza fine, alla disperata ricerca di un modo per salvare l'anima del figlio dalle fiamme dell'inferno. Cerca conforto nel vescovo a cui si rivolge per conoscere l'indirizzo di Achille, ma il porporato la tratta con freddezza, sventolando sotto il suo naso una lista di preti pedofili che protegge senza troppi ripensamenti, adducendo come motivazione la malvagità insita in ogni bambino. Elisabeth lo uccide e ruba la lista. Sa cosa fare.

Come scritto in precedenza è del tutto normale essere disorientati di fronte ad un'opera che senza mezzi termini, in maniera chiara e netta, aggredisce la Chiesa, il potere perpetrato dalle alte sfere religiose, l'omertà che regna sovrana e che rende le vittime ancora più deboli e indifese. Lannoo affronta il discorso alla sua maniera, con toni grotteschi e qualche tocco splatter, giocando spesso e volentieri sul contrasto tra quanto viene detto dai personaggi e quello che si vede, con le parole che vengono puntualmente contraddette dalle immagini. E' la storia della ricerca di una giustizia terrena, del progressivo allontanamento dalla fede di una donna che smette di credere in un'entità sovrannaturale perché non risponde più alle sue preghiere. L'autore belga, che già in Vampires aveva toccato l'argomento, agganciandosi agli stilemi dell'horror e del mockumentary, mette alla berlina le patologie e le nefandezze non solo di un certo mondo religioso, ma in generale di tutti quei microcosmi borghesi, famiglia in testa, in cui è necessario sempre salvare le apparenze. "Accettare di non sapere è la sfida più grande, il presupposto fondamentale della fede", dice Elisabeth ad un'ascoltatrice che le chiede consigli sul matrimonio. Credere è quindi essere ciechi. Nel complesso la commedia nera di Lannoo funziona, strappa anche qualche risata per il modo oltraggioso e amorale di rendere il problema, prendendosi i suoi rischi con coraggio, ma non riesce ad entrare sotto pelle; non scuote nel profondo, non scandalizza davvero, giocherella con lo spettatore ma non lo coinvolge.

Movieplayer.it

3.0/5