Quando andò in onda la prima trasposizione del romanzo Radici, nel gennaio 1977 per otto serate consecutive sulla rete americana ABC e in seguito nel resto del mondo, fu evidente da subito che il pubblico si trovava al cospetto di un evento televisivo senza precedenti. La parabola di Kunta Kinte, giovane africano rapito e portato in Maryland per essere venduto come schiavo nella seconda metà del diciottesimo secolo, rappresentò un momento di svolta per la narrazione sul piccolo schermo: nove Emmy Award, il Golden Globe come miglior serie dell'anno e una media da record di ottanta milioni di spettatori a episodio negli Stati Uniti.
A quasi quarant'anni di distanza, il popolarissimo libro omonimo di Alex Haley è riapprodato sugli schermi, questa volta grazie a History Channel: Radici, quattro episodi della durata di due ore ciascuno, torna infatti a raccontare la tragica avventura di Kunta Kinte e la sua odissea nell'America schiavista del Settecento. In programma su History, il canale storico di Sky, a partire da venerdì 16 dicembre in prima serata, il nuovo Radici, che in patria ha raccolto sette nomination all'ultima edizione degli Emmy, è stato presentato giovedì in anteprima al RomaFictionFest, alla presenza di due ospiti d'eccezione: Malachi Kirby, attore inglese di ventisette anni che presta il volto a Kunta, e LeVar Burton, ovvero l'interprete di Kunta nella miniserie del 1977 e stavolta nei panni di produttore esecutivo. Ecco cosa ci hanno raccontato i due interpreti a proposito di questo ambizioso progetto e dell'attualità del suo messaggio...
Il viaggio di Kunta, dal 1977 a oggi
Secondo voi, da cosa è dipeso nel 1977 il successo planetario di Radici?
LeVar Burton: Penso dipenda dal fatto che i temi di Radici siano universali; a prescindere dalla cultura di appartenenza, gli ideali di libertà, giustizia e unità familiari sono importantissimi per qualunque essere umano.
Malachi Kirby, hai avuto occasione di vedere il Radici del 1977 e cosa ne pensi?
Malachi Kirby: Ho visto la miniserie originale, ma ho scelto un'altra direzione: non volevo ricreare la performance di LeVar Burton, ma seguire una mia strada, scoprire questo personaggio e i suoi sentimenti, le sue speranze e le sue paure. Sono nato a Londra da una famiglia di origine giamaicana: ho fatto un test del DNA e ho scoperto che il settantacinque percento del mio DNA proviene dall'Africa occidentale. Purtroppo però non so a quale parte dell'Africa di preciso appartengano i miei antenati, perché mi rendo conto che la schiavitù ha cancellato moltissime informazioni sulle nostre origini: Kirby non è un nome africano, ma le radici della mia famiglia sono lì in Africa, e questo mi ha colpito profondamente. Le riprese sono avvenute in parte in Africa, e trovarsi in quei luoghi, accanto a quelle persone e alla cultura Mandinka, ha favorito il mio processo di identificazione, tanto che quasi non mi sembrava di recitare: la mia è stata piuttosto una reazione emotiva. Per me era importante capire davvero chi fosse Kunta Kinte, facendo mie la sua cultura e le sue abitudini, a cui lui è sempre rimasto aggrappato.
LeVar Burton, quali sono i tuoi ricordi della miniserie del 1977?
LeVar Burton: Rivisitare questa storia presentava una grande opportunità: sfruttare studi che non erano disponibili quando Alex Haley aveva compiuto le proprie ricerche per il libro. Per esempio abbiamo scoperto che Kunta Kinte proveniva da una famiglia di guerrieri e cavalieri di un'importante città commerciale africana, non da un piccolo villaggio come nel romanzo. Le basi di questa nuova miniserie, perciò, hanno un fondamento storico molto più solido e dettagliato.
LeVar Burton, a diciannove anni come hai vissuto la pressione di quell'enorme successo televisivo?
LeVar Burton: Ero un ragazzino... ho pensato che fosse fichissimo! Ma non vorrei mai entrare nel mondo dello spettacolo oggi, nell'era dei social media, perché oggi una celebrità non ha alcun modo di tenere privati i propri errori. Gli errori sono una parte della crescita e della maturazione, li commettono tutti i ragazzi, ma vederli immediatamente diffusi sul web... non invidio affatto Malachi!
Hai dato qualche consiglio a Malachi Kirby per accostarsi al ruolo di Kunta Kinte?
LeVar Burton: L'unico consiglio che ho dato a Malachi è stato di fare proprio questo personaggio. Ma sono stato felice di poter essere lì, a supportarlo emotivamente e spiritualmente, soprattutto nelle scene più difficili da realizzare, perché ho sperimentato quelle stesse difficoltà.
Malachi Kirby: LeVar mi ha sostenuto e incoraggiato, anche se ci siamo incontrati soltanto un mese dopo l'inizio delle riprese, e mi è sembrato una sorta di fratello maggiore. In alcune sequenze, quando mi sentivo più vulnerabile, la presenza di LeVar è stato molto importante: lui aveva già vissuto lo stesso percorso nella miniserie originale, e il fatto che lui sapesse cosa stavo provando è stata una fonte di sostegno.
Dal passato al presente: il nuovo Radici
Malachi Kirby, è stato difficile confrontarti con un modello tanto importante?
Malachi Kirby: Fin da quando stavo facendo i provini ho provato un enorme senso di inadeguatezza, non credevo di poter raccontare questo personaggio. Sul set mi sono guardato intorno: tutti gli attori erano incredibili e mi sono chiesto cosa ci facessi io lì. Io non mi sentivo all'altezza, così a un certo punto ho pregato e ho capito qualcosa di fondamentale: non ero io al centro della scena, ma io dovevo limitarmi ad essere il veicolo di Kunta Kinte, della sua storia e delle sue esperienze. Le riprese sono state una sfida continua, e le scene più difficili sono state quelle sulla nave e quella delle frustate.
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Quali reazioni ha suscitato questo remake nel pubblico americano?
LeVar Burton: Abbiamo realizzato questa nuova miniserie per permettere a una nuova generazione di conoscere questa storia. Il Radici originale ha ottenuto ascolti al di fuori delle nostre possibilità: viviamo in un mondo con tantissimi canali e tantissime scelte, e nessuno riuscirà più a raggiungere quei numeri in termini di audience. Sono contento però che siamo riusciti a introdurre questa storia alle nuove generazioni sia in America che negli altri paesi del mondo.
Malachi Kirby, quali qualità hai voluto restituire di questa figura ormai quasi leggendaria?
Malachi Kirby: Per me l'integrità di Kunta emerge come la sua caratteristica più importante: con tutte le ingiuste e la brutalità di cui è vittima, Kunta continua a rimanere attaccato al proprio nome, quindi la conoscenza di sé e l'orgoglio per la propria cultura. Inoltre ho cercato anche di esprimere il carisma di Kunta, insieme alle tracce di gioia e di speranza che conservava dentro di sé, perfino nei momenti più duri: qualità con cui tutti si possono rapportare, perché Kunta non è solo uno schiavo, ma innanzitutto un giovane essere umano.
Radici, l'America e il razzismo
Nel realizzare questo remake avete pensato anche ai numerosi legami della storia di Radici con l'attualità?
LeVar Burton: La schiavitù non è stata sradicata da questo pianeta: in un certo senso possiamo dire che le nuove forme di schiavitù ci hanno spinto a girare il remake. In fondo la schiavitù del passato era anche un'emigrazione forzata, e questa emigrazione ancora continua: quando enormi masse di persone si spostano da un luogo all'altro la prima reazione è la paura. Pertanto non devi essere necessariamente afroamericano per apprezzare questa storia e restarne coinvolto, perché è una storia veramente universale.
Come mai, nonostante la Presidenza di Barack Obama, negli Stati Uniti rimangono ancora enormi tensioni razziali?
LeVar Burton: Perché questa è l'America.
Siete più ottimisti per la presenza di numerosi film a sfondo black nella awards season o pessimisti per la vittoria alle elezioni di Donald Trump?
LeVar Burton: Per quanto ne so, Donald Trump non è un membro dell'Academy... e anche se lo fosse, avrebbe un solo voto! Comunque sono ottimista per quest'anno, c'è una grande varietà di progetti su personaggi afroamericani e non sempre è così. Penso che sia indicativo del fatto che possiamo avere storie raccontate da punti di vista diversi, storie che possono influenzare la mentalità delle persone.
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Pensate che il cinema e la televisione siano in grado di cambiare il corso della storia?
LeVar Burton: Radici fu il mio primo lavoro, ma ero già cosciente che si trattava di qualcosa di speciale, che non si era mai visto prima in televisione. Radici ha fornito un nuovo contesto a proposito del tema della schiavitù, e sì, sono convinto che l'arte abbia il potere di cambiare la storia: magari sviluppando l'empatia e la comprensione di alcuni spettatori nei confronti della nostra comune natura umana. Magari Steven Spielberg o Steve McQueen ne sono stati ispirati, ma Radici ha avuto un'influenza non solo artistica, ma anche sociale. Quando facciamo il nostro dovere, la televisione non è più solo intrattenimento, ma ha la capacità di illuminarci e di indicarci la strada giusta.
L'arte dunque rimane uno strumento indispensabile?
LeVar Burton: L'arte ha sempre svolto questa funzione: fissare e stabilire il contesto delle storie che ci dicono chi siamo e dove stiamo andando, e questo è fondamentale nel percorso dell'umanità. Non è mai cambiato, fin da quando le persone si riunivano attorno a un fuoco per sentir raccontare storie; poi abbiamo inventato la stampa e abbiamo potuto condividere le storie oltre la tradizione orale. Ora il fuoco si è spento, e le persone si riuniscono attorno al televisore per ascoltare le storie: magari fra quarant'anni la tecnologia sarà andata oltre internet e i telefonini, ma la tecnologia rimarrà comunque un mezzo per raccontare storie, perché le storie ci trasmettino il significato dell'essere umani.