Rachel si sposa tra lacrime e pugni
Jonathan Demme, negli ultimi tempi, aveva girato principalmente documentari. Per il suo ritorno al cinema narrativo decide di portare sul grande schermo una sceneggiatura scritta da Jenny Lumet, figlia del regista Sidney, e nella traduzione in immagini del suo sorprendente script fa salva la lezione che anni di cinema documentario gli hanno insegnato: per entrare nel cuore degli uomini bisogna passare per la verità. Ne esce fuori una storia di dolori familiari catturata con uno stile esasperatamente realista che rimanda ai filmini privati girati in occasione degli eventi più importanti, quelli che riescono a riunire tutti i membri di una famiglia anche dopo anni di lontananza. In questo caso è il matrimonio di Rachel, per la cui celebrazione torna a casa la sorella Kym, ex modella e tossica in cerca di redenzione nelle cliniche di disintossicazione. Le tensioni e i drammi sopiti, messi da parte solo per la lontananza, sono destinati a esplodere e a far vittime, un confronto necessario quando un pesante passato ha lasciato ferite così profonde in tutti i componenti della famiglia Buchman. E' tempo di cicatrizzare, di elaborare lutti i cui strascichi di disperazione si portano dietro parole non dette, domande rimaste in gola, scuse e perdoni mai ottenuti.
Presentato in concorso a Venezia 65, Rachel Getting Married è un film come mai te lo aspetteresti da una produzione americana: personaggi spiazzanti che ci evitano comportamenti meccanici e preconfezionati, guizzi di sceneggiatura che giungono a spezzare gli equilibri, una ricchezza di sentimenti ed emozioni che donano agli eventi e ai loro protagonisti un'umanità che non può non toccare. Anche sotto il piano espressivo il film di Demme si mantiene anticonvenzionale, non tanto per questo stile tra l'amatoriale e il documentaristico con cui viene dipinto il dramma familiare, ma per la scelta inconsueta di mostrare ciò che accade in tutta la sua interezza, lasciando lavorare poco le forbici del montaggio. Così i conflitti hanno il tempo di mettersi in moto nelle
lunghe conversazioni che compongono il film e di deflagrare in modo imprevedibile (si guardi a tal proposito la scena del confronto tra Kym e sua madre) anche grazie al lavoro di improvvisazione dell'ottimo cast. Quello di Demme è un realismo che tende a immergere lo spettatore nell'universo dei personaggi, in ciò che provano e negli intrecci che li collegano in un racconto corale che trova in Robert Altman un maestro prezioso a cui ispirarsi.Jonathan Demme si intrufola con camera a mano nella vita privata di una famiglia con parecchi conti insospeso, riuscendo a tirarne fuori la spontaneità, cosa non facile in questo genere di film che risultano sempre un po' fasulli. In questo modo testimonia la competizione tra le due sorelle, pronte a rinfacciarsi le disparità d'affetto nel rapporto col padre e nell'assenza della madre da tempo lontana, gli eventi tragici legati al passato che hanno segnato lo sgretolamento della pace familiare, le colpe e i rimorsi che logorano e velano di tristezza gli occhi dei protagonisti del banchetto nuziale. Con la vita che si svela sullo schermo escono fuori anche un umorismo a tratti malinconico e tante lacrime che rischiano di affondare una bella storia di tormenti intimi in un melodramma esagerato che scuote con fin troppa facilità l'animo dello spettatore. Eppure il regista di Philadelphia e Il silenzio degli innocenti è bravissimo a mantenere gli equilibri, ma soprattutto a riservare un'attenzione ossessiva ad ognuno dei personaggi, sinceri, istintivi, vivi, che colpiscono per la loro complessità. Il regista lascia scorrere gli eventi con naturalezza, fermandoli senza ostacolarli con la sua presenza, partecipe di tutto questo dolore che esce fuori e che sfinisce i personaggi sia a livello emotivo che fisico, lasciando loro lividi dentro e fuori, ma senza ucciderli mai. Per lo spettatore si prevedono grandi patimenti.