Accolto con calorosissimi applausi alla scorsa edizione del Festival di Cannes, vincitore della Queer Palm come miglior film a tematica omosessuale e ricompensato con un notevole successo al botteghino (tredici milioni di dollari incassati finora in tutto il mondo e un milione e mezzo di spettatori), dall'11 dicembre approderà anche nei cinema italiani Pride, travolgente commedia che, amalgamando con grande efficacia ironia, racconto di formazione e cronaca storica, riesce a divertire e a commuovere grazie ad una vicenda realmente accaduta e dal valore emblematico: l'anomala alleanza instaurata nel 1984 fra un sindacato gallese di minatori, in sciopero contro il Governo di Margaret Thatcher, e un'associazione di attivisti gay di Londra, la Lesbians and Gays Support the Miners.
Il film, diretto da Matthew Warchus, è uno dei gioielli da non perdere in sala a fine anno, grazie a Teodora Film, che curerà la distribuzione nel nostro paese. Ieri, alla Casa del Cinema di Roma, abbiamo incontrato lo sceneggiatore di Pride, Stephen Beresford, insieme a due dei protagonisti dell'ampio e variegato cast: Andrew Scott, celebre per il ruolo del perfido Jim Moriarty in Sherlock e qui nella parte dell'attivista gay Gethin Robers, e il giovane e bravissimo George MacKay, il quale impersona invece Joe Cooper, ventenne che non ha ancora rivelato alla propria famiglia di essere omosessuale.
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Un'incredibile storia vera, fra orgoglio ed emozione
Stephen, com'è nata l'idea per la sceneggiatura di Pride?
Stephen Beresford: La vicenda me l'hanno raccontata vent'anni fa, e da sceneggiatore, abituato a fiutare un buon soggetto, la mia prima reazione è stata pensare che fosse una storia incredibile. All'inizio non ci credevo, l'unione fra gay e minatori era una cosa troppo straordinaria per essere vera! La materia narrativa è molto potente, ma immaginavo di dover inventare diversi elementi per riempire la storia: invece facendo ricerche mi sono reso conto che la storia era già talmente bella di per sé! Le ricerche sono state un po' difficili, all'epoca non c'era Internet... però sono riuscito a rintracciare i veri protagonisti, che sono ancora molto amici fra loro e mi hanno aiutato in fase di scrittura.
Andrew, George, qual è stata per voi la sequenza più emozionante da girare?
Andrew Scott: Sono tanti i bei ricordi delle riprese, ma un momento particolarmente toccante è stata una delle prime letture della sceneggiatura. Nel film ci sono ben settantacinque ruoli parlati e tanti protagonisti: Matthew ci ha messo seduti tutti attorno a un tavolo, con musiche pop degli anni Ottanta in sottofondo, e ha creato una bellissima atmosfera. È stato commovente vedere giovani attori emergenti seduti accanto a leggende del cinema inglese. Alla fine della lettura tutti hanno reagito al film con grande passione, a prescindere dall'età o dall'orientamento sessuale. Io sapevo che sarei rimasto colpito perché è una storia che mi riguarda da vicino, ma sono rimasto sorpreso da come tutti quanti si siano sentiti così coinvolti dal film. Uno dei messaggi di Pride è proprio che sono molte di più le cose che ci legano gli uni agli altri rispetto a quelle che ci dividono.
George MacKay: Sicuramente ci sono tante scene toccanti, e un conto è leggerle sul copione e un conto interpretarle. Una delle sequenze più commoventi per me è stata quella in cui si ritrovano tutti insieme nello stesso locale e cominciano a cantare... vedendo questa scena ti rendi conto dell'importanza della storia raccontata e della sua capacità di coinvolgere ed emozionare davvero tutti.
È stato difficile trovare i finanziamenti per questo progetto?
Stephen Beresford: Pride è la mia prima sceneggiatura per il cinema, quindi non avevo molta esperienza in materia di finanziamenti... ma indipendentemente dal tuo budget ti rendi conto che poi i soldi sembrano non bastare mai! In vent'anni molti hanno rifiutato di produrre questo soggetto; forse i finanziatori sono stati intimoriti dall'idea che il film potesse interessare solo ai gay o ai gallesi, ma Pride invece ha un messaggio universale e si rivolge a tutti, perché parla in primo luogo di esseri umani. Matthew Warchus è un regista brillante, e quando lui e la Pathé sono entrati nel progetto è stato finalmente possibile realizzare il film.
Contro la Thatcher, combattendo i pregiudizi
Stephen, cosa è cambiato oggi rispetto alla passione politica degli anni Ottanta in Gran Bretagna? Qual è il tuo punto di vista sul dibattito sull'immigrazione nel vostro paese?
Stephen Beresford: Quando hai un avversario davvero forte contro cui combattere, come Margaret Thatcher, di certo questo può dar vita a fenomeni culturali significativi. Quello che succede oggi in Gran Bretagna, al contrario, è che la classe politica sembra essersi dissolta: non sappiamo più con esattezza chi ci governa e le rivendicazioni politiche non hanno bersagli precisi, quindi forse è più semplice fare riferimento alle lotte sociali del passato. Non avrei mai potuto scrivere un film così pieno di passione e di partecipazione se non fossi a favore dell'immigrazione... credo che siamo tutti cittadini del mondo e credo che ognuno abbia il diritto di vivere dove vuole.
Pride è anche un film molto significativo per il suo ritratto dell'omosessualità, per esempio con la bellissima scena del bacio fra Joe e un altro ragazzo in discoteca...
Stephen Beresford: Quella scena è capitata quasi per caso: vorrei dire che l'ho pianificata con precisione, invece non l'avevo scritta in maniera del tutto cosciente, è come se fosse stata partorita da un altro lato del mio cervello. Secondo me una delle scene più belle è anche il dialogo fra Bill Nighy e Imelda Staunton mentre preparano i tramezzini: è stata una sequenza molto naturale, ci sono voluti cinque minuti per scriverla e cinque minuti per girarla, ma dice tantissimo.
Uno dei temi principali di Pride è il senso di solidarietà: quel tipo di solidarietà tipico delle lotte degli anni Ottanta esiste ancora oggi?
Stephen Beresford: Alla fine del film c'è una sequenza in cui un ragazzo gay intima di non usare cartelli e striscioni, perché il Gay Pride dev'essere un carnevale e non una manifestazione politica, dimostrando così che gran parte della comunità gay si disinteressava alla politica. Oggi forse siamo più isolati, ma la gente non è stupida: la solidarietà può riemergere in qualunque momento, e ora magari questa unione avviene tramite internet. Ho assistito alle reazioni di molti giovani al film: per loro l'idea della solidarietà è elettrizzante, e sono molto fiducioso per il futuro.
George, Andrew, cosa avete provato ad immedesimervi nei rispettivi personaggi e nelle loro difficoltà nell'essere omosessuali in una società ancora carica di pregiudizi?
George MacKay: Per il mio personaggio ho cercato di comprendere il clima politico e culturale dell'epoca, cosa volesse dire vivere l'omosessuaità in quel momento e quanto potesse essere difficile per un ragazzo di allora fare coming out con i suoi genitori. Joe ha anche alcune delle mie insicurezze, ed è interessante che la sua presa di coscienza avvenga grazie all'incontro con questo gruppo di attivisti gay. Sicuramente c'è un'empatia con il personaggio di Andrew per i comuni problemi di Joe e Gathin con le proprie madri.
Andrew Scott: Io sono nato in Irlanda ma poi mi sono trasferito in Inghilterra, quindi ho vissuto un senso di spaesamento, sapendo però di avere l'appoggio della mia famiglia. Il mio personaggio invece sperimenta un terribile senso di solitudine e di perdita. È importante ricordare però anche che i media britannici dell'epoca dipingeva in maniera estremamete negativa i gay, diffondendo inquietudini fra i genitori a proposito dell'omosessualità: posso capire quindi il sentimento provato da queste madri e le loro incertezze. Il film ha un finale molto potente e carico di speranza, ma fa riflettere sul fatto che episodi di discriminazione possano verificarsi perfino oggi. Finché le persone non solo accetteranno, ma abbracceranno chi è diverso da loro, non avverrà un vero progresso. Sono fiero di essere parte di questa generazione mentalmente aperta, ma c'è bisogno che determinati valori siano condivisi in maniera consapevole da tutti.
Andrew, com'è stato passare dal ruolo di villain in Sherlock ad un personaggio positivo?
Andrew Scott: Sicuramente una delle cose che ho apperezzato di più è stato interpretare un personaggio gentile anziché tenebroso come Moriarty, è stato davvero piacevole!
Dal Galles a Cannes... passando per l'Italia
Stephen, sei rimasto sorpreso dal responso ottenuto dal film?
Stephen Beresford: In Gran Bretagna c'è stato un responso eccezionale, il pubblico ne è stato molto emozionato, ed emozionarsi è una cosa estremamente rara per il popolo inglese! Non è normale che gli spettatori britannici applaudano a fine proiezione, invece con Pride è successo. All'anteprima del film abbiamo portato i veri protagonisti della vicenda, e dopo la proiezione si sono comportati proprio come i loro personaggi, facendo discorsi e condividendo la loro commozione. E poi siamo andati al Festival di Cannes!
Cosa rimane oggi della realtà locale dipinta nel film?
Stephen Beresford: Con la chiusura delle miniere, molti villaggi sono scomparsi; solo poche comunità sopravvivono ancora. Per molto tempo in Gran Bretagna c'è stata la tendenza a ridicolizzare i poveri e la working class, dipingendoli come individui rozzi; io ho voluto sovvertire questa tendenza e realizzare un film in cui invece la working class fosse istruita, colta, sensibile alla poesia e all'arte, come per il personaggio di Bill Nighy, e con una forte identità culturale. Tutto questo, purtroppo, con la chiusura delle miniere è scomparso, ma in compenso è rimasto ben vivo lo spirito dei gallesi, il loro umorismo e la loro energia... uno spirito che rimane vitale ancora oggi!
Abbiamo saputo di un aneddoto su Pride che riguarda anche l'Italia: vuoi raccontarcelo?
Stephen Beresford: Sapevo che in questa storia ci sarebbero state battute e momenti divertenti e che sarebbe stata una commedia, ma scrivendo il copione ho dovuto tagliare alcuni particolari. Nella vicenda di Pride infatti c'è anche un capitolo italiano davvero esilarante: due membri del gruppo gay vennero in Italia perché gli italiani sostennero i minatori gallesi e aiutarono a finanziare il loro sindacato, e quindi raccolsero fondi e anche enormi donazioni di cibo. Il popolo in Galles all'epoca era disperato ed affamato, ma non avevano mai mangiato cibo italiano e non avevano idea di come cucinare la pasta! Quando hanno ricevuto queste immense scorte di pasta, hanno organizzato una riunione in comune per capire come prepararla, e anche le lattine di olio d'oliva non capivano cosa fossero, gli sembrava una bevanda all'arancia. Alla fine hanno tirato fuori le padelle e hanno cucinato i fusilli fritti nell'olio, senza prima farli bollire! Adesso, trent'anni dopo, il meraviglioso cibo italiano è diffuso anche in Galles, ma all'epoca non era così... è un aneddoto buffo, e raccontarlo oggi è un modo per ringraziare gli italiani per il loro sostegno di allora.