"We are a different kind of power"
È una frase che si sente dire in Pride, la nuova docuserie in sei episodi di FX disponibile interamente su Star di Disney+ dal 25 giugno. Come spiegheremo in questo approfondimento su Pride, la docuserie racconta la lotta per i diritti LGBTQ+ in America, un decennio per ogni episodio dagli anni '50 ad oggi, ognuno diretto da un differente regista scelto ad hoc: Tom Kalin, Andrew Ahn, Cheryl Dunye, Anthony Caronna e Alex Smith, Yance Ford e Ro Haber. La serie è co-prodotta da VICE Studios - tra i produttori esecutivi abbiamo incontrato via zoom Alex Stapleton - e Killer Films, di cui abbiamo parlato con Christine Vachon. Un "potere" di cui la comunità queer ha bisogno per far sentire la propria voce, ora più che mai dato il difficile periodo di discriminazione, incomprensione, crimini d'odio che stiamo vivendo, con una legge - la DDL Zan - ancora ferma e non approvata nel nostro Paese.
Le testimonianze
Pride spazia dalla sorveglianza dell'FBI sulle persone omosessuali durante il Lavender Scare degli anni '50 alle "guerre culturali" degli anni '90 e oltre, esplorando l'eredità queer del movimento per i diritti civili e la battaglia sull'uguaglianza matrimoniale. A prestare la propria testimonianza e storia personale davanti la macchina da presa soprattutto personaggi meno conosciuti come Madeleine Tress o il videografo degli anni '80 Nelson Sullivan, che ha raccontato come il centro di New York si stesse svuotando durante l'epidemia di AIDS. Accanto a loro anche figure internazionali come il pioniere dei diritti civili Bayard Rustin, lo scrittore Audre Lord e i senatori Tammy Baldwin e Lester Hunt.
L'evoluzione dei diritti e delle identità transessuali attraverso i decenni è tracciata con interviste e filmati d'archivio e testimonianze di altri pionieri come Christine Jorgensen, Flawless Sabrina, Ceyenne Doroshow, Susan Stryker, Kate Bornstein, Dean Spade, Raquel Willis, la stessa Christine Vachon, Margaret Cho, John Waters, Jewelle Gomez, Ann Northrop, Zackary Drucker, Jules Gill-Peterson, CeCe McDonald, Brontez Purnell, B. Ruby Rich, Chase Strangio, Michael Musto e Tez Anderson.
Episodio 1 - "Anni '50: La gente faceva le feste"
Diretto da Tom Kalin, il cui lavoro attraversa forme diverse di espressione artistica, l'episodio inaugurale offre uno sguardo approfondito sulle vite vissute a pieno dalle persone queer negli anni '50 - che non erano necessariamente tutti nascosti e che non vivevano appieno la propria sessualità come si pensa, come raccontato nelle testimonianze - nel pieno di un forte aumento delle norme governative contro la comunità LGBTQ+ guidate dal senatore Joseph McCarthy, che ha inaugurato un'era di persecuzione appoggiata dal governo.
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La divisione in decenni
Ma perché dividere per decenni? Una scelta arrivata dalla produzione ma che ha trovato subito un consenso, come racconta Christine Vachon: "Penso che sia una scelta interessante e unica perché si tratta di una storia lineare ma permette ad ogni regista di avere una sorta di scatola in cui lavorare. Può aiutarli a scavare più in profondità su ciò che è stato più rilevante nel periodo che devono curare".
Stapleton aggiunge: "Mi trovo a parlare al posto di Tom ma prima degli anni '60 è davvero difficile trovare dei documenti video, sono rari, e quelli che siamo riusciti a reperire sono davvero azzeccati e con Tom che viene dallo scripted e che è abituato a lavorare con gli attori, abbiamo pensato: perché non affidarci alle re-interpretazioni per arrivare ancor più diretti agli spettatori? Siamo riusciti a farlo in modo organico scavando nelle emozioni".
Episodio 2 - "Anni '60: Rivolte e rivoluzioni"
Il decennio dei Stonewall Riots, considerati l'evento catalizzatore dei movimenti per i diritti LGBTQ+. La produzione della docuserie è infatti iniziata proprio nel Greenwich Village, a Lower Manhattan, il luogo dove si sono svolte nel giugno del 1969. Prima di Stonewall, eroi meno conosciuti provenienti da comunità emarginate, tra cui ragazze queer di colore e donne trans, hanno giocato un ruolo fondamentale nel progresso del movimento. Attraverso l'attivismo e la protesta, piccola e grande, la comunità LGBTQ+ ha lottato per i diritti, l'accettazione e l'uguaglianza. L'episodio è diretto da Andrew Ahn, un regista coreano-americano queer nato e cresciuto a Los Angeles. Ha promosso la diversità nelle arti facendo da mentore ai giovani registi attraverso programmi come Reel Voices del Pacific Arts Movement, OutSet dell'Outfest e il Native Filmmaker Lab del Sundance Institute.
Episodio 3 - "Anni '70: L'avanguardia della lotta"
In questo viaggio estremamente personale, Cheryl Dunye (conosciuta anche per prodotti seriali come Queen Sugar, The Fosters, Claws, Star, The Chi, All Rise, Lovecraft Country), appare lei stessa fra le testimonianze del proprio episodio. La regista, scrittrice e attrice afroamericana - fattasi conoscere come parte della "New Queer Cinema" di giovani registe e registi nei primi anni '90 - intreccia filmati d'archivio, testimonianze personali e interviste per mostrare come gli anni '70 abbiano contribuito a forgiare un movimento nazionale, dalla prima marcia in assoluto del Gay Pride (il Pride che si celebra ancora oggi), all'ascesa di artisti come la regista Barbara Hammer e la poetessa Audre Lorde, al confronto del femminismo intersezionale e al contraccolpo e all'opposizione della destra religiosa.
Ogni episodio è personale
Ma del resto ogni lavoro dietro la macchina da presa è personale, dice Vachon: "Una volta che abbiamo iniziato a collaborare con FX, abbiamo realizzato che la parte più difficile per ogni episodio sarebbero stati i personaggi, la loro importanza, la loro storia, le loro sofferenze e le loro emozioni. Quindi ogni regista ha disegnato la propria ispirazione nel girare. Ci sono elementi in una puntata che non si vedono nelle altre: ad esempio Tom Kalin utilizza le rievocazioni con gli attori nel primo episodio, che non rivediamo più" (a parte una parentesi nel secondo episodio con l'attore di Gossip Girl Connor Paolo, dove interpretava un personaggio queer). Continua Vachon: "Cheryl Dunye mette se stessa nel proprio episodio, proprio come fa coi suoi film, ma nessun altro dei registi lo fa. È una firma molto personale e intima nel raccontare l'argomento. Ognuno dei registi porta il proprio contributo, a volte più evidente a volte più sottile, ma sempre ugualmente personale".
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Episodio 4 - "Anni '80: Underground"
La New York degli anni '80, rinvigorita dalla rivoluzione sessuale dell'epoca precedente e dall'ascesa del Gay Liberation Front, vide un afflusso di persone queer nel centro di Manhattan e l'ascesa della scena delle ballroom (un aspetto mostrato nella serie di Ryan Murphy per FX Pose) e raccontato nella docuserie da Marquise Wilson. Allo stesso tempo, l'epidemia di AIDS devastava la comunità gay mentre Ronald Reagan e la sua Moral Majority si rifiutavano di intervenire (come mostrato di recente da Russell T. Davies in It's a Sin).
La regia in questo caso è a quattro mani, affidata a Anthony Caronna e Alex Smith, che avevano già lavorato insieme al documentario Susanne Bartsch: On Top, ricevendo vari riconoscimenti e facendosi notare per la propria cifra stilistica particolare. Caronna è un regista pluripremiato che negli ultimi dieci anni è passato per il teatro sperimentale dal vivo al cinema, e mette quest'aspetto e quest'esperienza anche nel suo lavoro in Pride.
Del resto, come ci tiene a rimarcare Stapleton, "le differenti prospettive della docu-serie sono il suo vanto ma sono state anche la sua sfida. Come fai a onorare la visione creativa generale pur lasciando la personalità ad ogni episodio, facendo capire allo spettatore che sta comunque guardando la stessa serie? Così come collegare le puntate fra loro con rimandi o apparizioni ripetute di alcune personalità a dare il proprio contributo in testimonianza. Volevamo assicurarci di mantenere il focus sulle tematiche che affrontavamo e questo voleva dire a volte 'criticare' il decennio precedente, o dare un assaggio su ciò che sarebbe venuto dopo. Seminare ciò che avremmo raccolto dopo nella conversazione".
Episodio 5 - "Anni '90: Le guerre culturali"
Gli anni '90 avrebbero dovuto annunciare una nuova era per la comunità LGBTQ+. Con l'elezione di Bill Clinton, avevano finalmente un alleato alla Casa Bianca - o almeno così pensavano. Le "guerre culturali" del titolo dell'episodio erano in pieno svolgimento e venivano combattute ovunque, da Capitol Hill ai cinema fino alle chiese. Hanno devastato le comunità, ma hanno anche galvanizzato le persone LGBTQ+ a creare politiche e organizzazioni che ancora oggi lottano per l'uguaglianza.
A dirigerlo Yance Ford, transgender, parte della scena cinematografica newyorchese.
Come dice Vachos: "Credo che i primi tre a bordo del progetto furono Yance Ford, Tom Kalin e Cheryl Dunye non per forza in quest'ordine. Ma sapevo che questi tre registi erano molto importanti per me per il loro posto nello storytelling queer. Tom e Cheryl inoltre avevano già esperienza col documentario, Yance anche l'aveva ma in tipi di progetti molto specifici. Quindi abbiamo iniziato con loro e questo ci ha dato la libertà di sperimentare con registi più giovani. Abbiamo cercato di scegliere registi che portassero punti di vista differenti dietro la macchina da presa, stili diversi, e molti di loro sono nati nel decennio di cui si dovevano occupare e sono entrati in squadra ammettendo di conoscere molto poco dell'episodio a loro affidato, quindi c'è stato anche un grande lavoro di ricerca e 'immersione' da parte loro".
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Episodio 6 - "Anni 2000: Y2gay"
Gli anni 2000 hanno inaugurato una nuova era di visibilità queer, dove gay e lesbiche stavano guadagnando l'accettazione nei media tradizionali. Ma anche mentre i membri bianchi cisgender della comunità LGBTQ+ trovavano un posto nella società, la lotta per i diritti delle persone trans continuava, e quella lotta ha preso la scena principale solo oggi.
L'ultimo episodio, che copre eccezionalmente due decenni fino ad oggi, è diretto da Ro Haber, tra le/gli otto miglior regist trans e Gender nonconforming secondo IndieWire in attività oggi, con uno sguardo in particolare sull'estetica dei lavori, in affiancamento al Ryan Murphy HALF Program del 2018 nella già citata Pose.
In generale l'episodio mostra come la pop culture sia molto più attenta oggi alle tematiche LGBTQ+ anche nella rappresentazione, anche se ancora spesso si tratta di queer bianchi (come accaduto ad esempio fra The L Word e il revival/sequel The L Word: Generation Q). La sequenza più emozionante della puntata? Sicuramente la partecipazione in massa, in piena pandemia, della manifestazione dedicata alle "Black Trans Lives Matter" dopo l'omicidio di George Floyd, curata da Raquel Willis.
Quale futuro per Pride?
Come cambierà ancora il Pride nei prossimi decenni? Si tratta di un fenomeno in continua evoluzione, proprio come la nostra società, ed è difficile non vedere un'utopia nella totale (o quasi) accettazione globale della comunità LGBTQ+, così come delle altre "minoranze", per via del retaggio culturale di supremazia bianca cisgender in cui siamo cresciuti. Ma non bisogna smettere di battersi, è probabilmente questo il messaggio principale di Pride.
E un futuro per la docuserie? Stapleton è incuriosita dall'idea: "Penso sarebbe davvero cool avere una nuova schiera di registi e magari toccare nuovamente gli stessi decenni o alcuni degli stessi decenni ma approfondendo aspetti diversi. Ci sono così tante pride stories che non sono ancora state documentate a dovere. Penso che potremmo andare avanti all'infinito (ride)". Le fa eco Vachos: "Non dimentichiamo che per gli anni 2000 hanno dovuto coprire eccezionalmente un ventennio in un solo episodio". Materiale scartato e ancora da raccontare non manca insomma, così come non manca l'orgoglio nel farlo.