"Il cinema trattiene le emozioni che la vita a volte non ce la fa a contenere". Le trattiene e le restituisce, e il fiume emotivo che tracima da Perdutamente (in sala per soli tre giorni dal 14 al 16 febbraio e poi disponibile su Sky e Rai) è davvero incontenibile, così ancora una volta dopo Up & Down, Paolo Ruffini riesce laddove è facile inciampare per eccesso di retorica: il cinema sociale riletto in chiave popolare. Se con il film precedente regalava il palcoscenico ai ragazzi con sindrome di Down, qui, come leggerete nella nostra recensione di Perdutamente, in tandem con Ivana Di Biase intraprende un viaggio nel mondo dei malati di Alzheimer, un pellegrinaggio dal Nord al Sud dell'Italia per incontrare non solo chi ne è affetto ma anche coloro che se ne prendono cura: le famiglie, gli amici, i figli, ma soprattutto mogli e mariti. Il racconto segue la cifra del disincanto, è leggero, sincero, Ruffini a volte prova a stabilire un contatto con i malati, ci parla, li abbraccia, gli sorride, ma sa anche farsi da parte, osservare, ascoltare e farsi domande per cui probabilmente non ci sono risposte. In alcuni momenti il film è quasi una carezza, in altri si fa più duro e realistico, qualche volta si dilunga un po', ma ha senz'altro un merito: dare forma ad un esercito di ricordi persi in chissà quale tempo e spazio, e sublimarli attraverso l'immagine cinematografica.
Un viaggio tra i malati di Alzheimer e le famiglie che se ne prendono cura
La genesi di PerdutaMente affonda le proprie radici nel territorio dei social. Tutto parte infatti da un video su Instagram con cui Paolo Ruffini chiede a chi vorrà, di condividere con lui le proprie storie sull'Alzheimer, la malattia che colpisce il sistema nervoso portando irreversibilmente alla perdita della memoria, della percezione di sé e del mondo esterno. La risposta va oltre ogni previsione e gli piomba addosso una valanga di messaggi, la partecipazione è straordinaria. Inizia così un lungo lavoro di selezione alla ricerca di quelle persone e dei loro racconti, ne sceglie alcune e comincia un viaggio per tutta Italia. Il leitmotiv non è la malattia, ma il materiale emotivo ad essa legata perché l'Alzheimer colpisce non solo chi ne soffre, ma anche chi gli è vicino e se ne prende cura con amore incondizionato.
Perdutamente racconta soprattutto loro, l'isolamento e il carico fisico ed emotivo cui devono far fronte nell'accompagnare padri, madri o nonni, mogli o mariti, in questa progressiva smarginatura dei ricordi: prima una lettera, poi le parole, i nomi dei tuoi cari, le azioni quotidiane, infine se stessi.
Ma se il cervello perde colpi, la memoria emotiva e i sentimenti invece rimangono e chi accudisce un malato di Alzheimer è lì per rinfocolarli, è la sublimazione stessa dell'amore.
A scandire il viaggio di Paolo Ruffini è lo scambio epistolare con Franco, una storia "di amore e disperazione" che si intreccerà con le altre raccontate nel documentario. Sua moglie Teresa se l'è portata via l'Alzheimer diagnosticato quando aveva solo 30 anni, lui se ne è occupato per i restanti quaranta e "la sconfitta vera è arrivata il giorno in cui l'hanno trasferita in una RSA, era come non avere più uno scopo", ricorda. A lui il regista rivolge la domanda che guiderà l'intero film, "cosa vuol dire accudire un malato di Alzheimer?". "Amare", risponde Franco, "ho capito che non potevo guarirla ma potevo amarla, darle aiuto e dignità". Dall'Alzheimer non si guarisce, ma la cura stessa è guarigione e la ferocia con cui disintegra il corpo e la mente del paziente, nulla può contro l'amore che sembra ne rallenti la progressione: è questa la tesi pienamente abbracciata dal film.
Ritrovare la propria nota con la vita
"I malati di Alzheimer sono viaggiatori nel tempo, ma il loro tempo non appartiene al nostro", dice Ruffini in una delle riflessioni che puntellano questa indagine. Le storie e gli incontri di cui si renderà partecipe, sono un concentrato di tenerezza e struggimento: c'è la madre di Martina, una signora di mezza età consapevole della propria malattia, convinta che la cosa migliore sia il "qui e ora" e viverlo bene, ancora lucida e alle prese con le prime avvisaglie come l'immagine delle lettere in successione che svanisce, le parole che vanno via; e poi c'è Pina a Crotone che canta a memoria una canzone di Brunori Sas, la preferita dal figlio perso anni prima per un tumore; o la madre di Enza, una donnina minuta del bolognese che pensa ancora di avere vent'anni e che da una vita si occupa di Mimmo, il figlio disabile, sono l'uno la linfa dell'altro; e ancora Ludovico e Monica, due musicisti, nelle note Monica riacciuffa quella parte di se stessa che la sta abbandonando e Ludovico la ritrova; e poi c'è Dino, un portiere milanese che racconta quanto sia ancora "innamorato pazzo" di quella donna che ormai non lo riconosce più, "ti distrugge dentro" dice in lacrime.
La lista di nomi e storie si allunga, dentro c'è spazio anche per una chiacchierata leggera con Lino Banfi, che da anni accudisce la moglie ammalata di Alzheimer e per un saluto al vecchio papà. Tutto si ricompone in quel momento intimo e personalissimo, poco prima di poter concludere che "il malato di Alzheimer è l'innamorato più sublime che possa esistere: sa amare perdutamente", solo deve ritrovare l'intonazione con la vita. A questo dovrebbe simbolicamente servire il diapason che Ruffini decide di regalare a ognuno di loro.
Conclusioni
In conclusione la recensione di PerdutaMente non può che ribadire la sincerità del racconto e la schiettezza con cui Paolo Ruffini conduce un viaggio, che porta lo spettatore nelle case dei malati di Alzheimer e dei familiari che se ne occupano. Un pellegrinaggio su e giù per l’Italia per mostrare non gli effetti della malattia, ma la relazione tra chi ne è affetto e chi li cura con amore incondizionato. La cura dunque come guarigione e ultimo avamposto per resistere all’oblio e salvare la memoria emotiva.
Perché ci piace
- Un racconto disincantato e sincero, che entra nelle case dei malati di Alzheimer e dei familiari che li accudiscono.
- Il cambio di prospettiva nel racconto dell’Alzheimer: al centro della narrazione non c’è la malattia, ma la dedizione e l’amore incondizionato di chi accudisce i malati.
- Paolo Ruffini osserva, ascolta, parla con i malati, si fa da parte quando necessario e conduce l’intero viaggio prendendo per mano lo spettatore. La commozione è sincera.
Cosa non va
- Forse in alcuni momenti l’eccessiva insistenza sull’amore come cura, potrebbe sfociare nella banalizzazione del concetto.