Classe 1963, Park Chan-wook ha firmato il suo primo lungometraggio nel 1992, si è imposto come uno dei nomi più interessanti del cinema sudcoreano con l'opera terza Join Security Area e nel 2004 ha ottenuto la consacrazione internazionale vincendo il Gran Premio della Giuria a Cannes per Old Boy. Una carriera che il Ginevra Film Festival 2019 ha deciso di omaggiare con il Film & Beyond Award, accompagnato da proiezioni speciali che rappresentano la varietà del percorso artistico di Park: due lungometraggi (in versione estesa), tre cortometraggi (realizzati in tandem con il fratello) e la versione integrale, leggermente più lunga, della miniserie televisiva The Little Drummer Girl. L'abbiamo incontrato a Ginevra poche ore prima della consegna del premio per un intervista.
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Una carriera notevole
Per cominciare, cosa significa per te il Film & Beyond Award?
È un grande onore, perché quando ho cominciato a fare film il cinema coreano non era particolarmente noto fuori dai confini nazionali. È un sogno che si avvera, essere riconosciuto a livello internazionale.
Negli Stati Uniti ultimamente si dice spesso che determinati film del passato non si potrebbero fare oggi, per via dei contenuti. C'è una mentalità simile in Corea? Sarebbe un problema girare Old Boy adesso, per esempio?
Non sapevo di questa cosa, ma devo dirti che quando ho girato The Little Drummer Girl, che era una co-produzione tra Stati Uniti e Regno Unito, c'erano delle limitazioni curiose da entrambi i lati: la BBC mi teneva d'occhio per le scene violente, mentre la AMC si preoccupava per le scene di sesso. Questo mi ha un po' inibito, perché nei miei film ci sono spesso scene di quel tipo. In Corea questo non accade, l'unico problema che abbiamo è legato ai limiti d'età: Mademoiselle, che in Francia è vietato ai minori di 12 anni, nel mio paese è vietato ai minori di 19.
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Altri formati
A proposito della miniserie che hai appena citato, cosa ti ha spinto ad accettare quell'incarico?
Sono un grande ammiratore della scrittura di John Le Carré, l'autore del romanzo originale, e credo che per lui due ore di film siano limitanti. Mi piaceva avere a disposizione tra le sei e le otto ore per raccontare la storia, senza dover mutilare la trama.
È per quel motivo che ha rifiutato La talpa alcuni anni fa?
In parte sì, ma il motivo principale è un altro: non mi piaceva la sceneggiatura che mi avevano proposto. Quando poi ho visto il film mi sono reso conto che Tomas Alfredson l'aveva fatto riscrivere da zero, da un altro sceneggiatore, e il risultato è ottimo. Devo dire che in quel momento ho provato un po' di invidia.
Molti registi abbandonano i cortometraggi quando passano ai film lunghi, tu invece li giri, solitamente con tuo fratello, tra un lungo e l'altro. C'è una libertà nel cortometraggio che non trovi altrove?
Innanzitutto ti ringrazio per la domanda, di solito la gente non si interessa ai cortometraggi. Sì, c'è una libertà maggiore, nel senso che non devo preoccuparmi per l'esito commerciale. Ed è un piacere collaborare con mio fratello, perché da quando ci siamo entrambi sposati ci eravamo un po' persi di vista, e con questa nuova casa di produzione abbiamo ritrovato la complicità di un tempo.
Passato e futuro
Di recente, al Festival di Busan, hai annunciato due nuovi progetti: un quarto film sulla vendetta e un nuovo adattamento del romanzo The Ax, già portato sullo schermo da Costa-Gavras. Cosa puoi dirci al riguardo?
Non molto, perché non so ancora esattamente quando li girerò. Posso dirti che saranno entrambi in inglese, e che l'adattamento del libro di Donald Westlake è un progetto che inseguivo da tanto tempo. Quanto all'altro film, non c'entra nulla con il trittico precedente, perché sarà un western americano, ma c'è di nuovo il tema della vendetta.
Prima hai parlato dei limiti che ti sono stati imposti lavorando alla miniserie per BBC e AMC. Ci sono altre differenze, a livello di metodi produttivi, tra la Corea e i mercati angloamericani?
Ce n'è una, e riguarda la concezione che si ha del regista: in Corea è la persona più importante sul set, e decide tutto a livello creativo, mentre in America, e in parte anche nel Regno Unito, deve spesso chiedere il permesso a terzi. Ne ho parlato di recente con Ang Lee, che è taiwanese ma lavora soprattutto negli Stati Uniti, e lui ha descritto perfettamente la differenza: in Corea e in Europa il regista è un re, negli Stati Uniti invece è un presidente, e deve saper convincere i parlamentari.
Sei anche stato critico cinematografico. Questo ha influito sulla tua visione del cinema? E qual è il tuo rapporto attuale con la critica?
Ci sono molti registi che hanno iniziato come critici, io invece ho fatto l'opposto: sono passato alla critica perché i miei primi due lungometraggi erano andati male e avevo bisogno di guadagnare da vivere. Non mi piaceva particolarmente, e sognavo sempre di tornare dietro la macchina da presa. Quando Joint Security Area è stato un successo, la mia prima reazione è stata 'Evviva, non devo più scrivere di altri film'. Con questo non sto dicendo che i registi siano superiori ai critici, o che la critica non abbia valore. Sono due discipline diverse. Semplicemente non faceva per me, anche in termini di visione del cinema: per creare il mio immaginario non avevo bisogno di analizzare quello degli altri.