Parte dentro un tunnel, ha una scena chiave ambientata nel cuore di una galleria buia, c'è gente che non riesce a respirare. Apriamo questa recensione di Padrenostro raccontandovi la perenne oppressione avvertita guardando l'ultimo film di Claudio Noce, primo film italiano presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2020. Un'opera in cui si avverte per tutto il tempo una forte e pressante esigenza personale. Padrenostro, infatti, rielabora una fondamentale vicenda autobiografica vissuta in prima persona dall'autore quando suo padre, il vicequestore Alfonso Noce, fu coinvolto in un attentato. Era l'Italia della Lazio di Giorgio Chinaglia, de La Linea di Cavandoli che imperversava in tv, di Tex che invadeva le edicole, e soprattutto l'Italia degli anni di piombo. Quella del terrore costante, fatto di autobombe, mitra e passamontagna.
A Noce non interessa il disegno d'insieme, perché ha un altro bisogno impellente a cui dare voce. Padrenostro è un fatto personale, un trauma intimo con cui scendere a patti una volta per tutte. Lo fa in un film volenteroso e imperfetto, dove questa esigenza lampante diventa sia un pregio che un freno. Come un lungo tunnel in cui si aprono tante strade, se ne imbocca qualcuna e nessuna viene percorsa davvero sino alla fine.
Dammi oggi il tuo affetto quotidiano
"Tratto da una storia vera". Questo si legge nei titoli di testa di Padrenostro. Per evitare di essere troppo esplicito Noce trasla la sua storia sulla famiglia Delle Rose, cambia nomi e cognomi ma non la sostanza di questa storia piena di bisogni frustrati, taciuti, in attesa di una definitiva elaborazione. Il film si apre e si lega per tutto il tempo allo sguardo angelico di Valerio, un bambino di dieci anni con un amico immaginario, una grande passione per il calcio e una famiglia agiata che lo protegge a oltranza, anche quando suo padre viene sparato sotto casa. Valerio assiste alla scena, e la sua vita viene segnata per sempre. Da quel momento Padrenostro scende ad altezza di bambino per guardare il mondo con quegli occhi bisognosi di conferme, affetto e soprattutto risposte. Perché il cuore pulsante del film è nascosto nel rapporto irrisolto tra Valerio e suo padre (un sempre intenso Pierfrancesco Favino). L'attore romano, ormai giunto al suo terzo biopic consecutivo, dà vita a una figura genitoriale davvero ambigua, appare e scompare, è astratto e poi di colpo troppo presente.
La preghiera laica del titolo (che nel finale acquista un doppio significato) implora la risoluzione di questo legame e rende bene l'idea di questo papà che aleggia sul figlio, in bilico tra stima e repulsione, bisogno di amore, possesso e condanna. Il fatto che Noce non ci dia mai informazioni chiare su questo padre (il suo lavoro e la sua posizione morale rimangono volutamente vaghe) da una parte restituisce bene la percezione di Valerio, dall'altra spiazza e disorienta, come se il regista abbia dato alcuni elementi a lui ovviamente noti troppo per scontati.
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Liberami dal trauma
Quando un film nasce da un'urgenza così impellente non è facile darle voce in maniera equilibrata. In questo caso è come se l'impulso fosse troppo violento per essere pienamente controllato. Per quanto Padrenostro riesca a recuperare il candore di uno sguardo fanciullesco, va anche detto Noce si complica la vita inserendo nel film anche altri elementi e altri temi non ben amalgamati, che alla fine risultano quasi distrazioni che allontanano lo spettatore dal perno della storia. La presenza di un ragazzo misterioso all'interno della trama sembra voler arricchire Padrenostro anche di una sfumatura da thriller surreale, ma alla fine si rivela soltanto un espediente narrativo che bluffa lo spettatore disorientandolo inutilmente. Al netto di una regia ispirata nella messa in scena (la camera segue con grande attenzione Valerio e ricrea bene l'andirivieni dei contesti domestici), l'uso eccessivo del rallenty e alcuni momenti musicali insistiti danno al film troppa enfasi e poca autenticità. In qualche sequenza, forse, sarebbe servito uno stile più asciutto e incisivo, che non sovraccaricasse questo rapporto genitore-figlio con elaborazioni del trauma sottolineati più volte e la storia di un'amicizia nebulosa. È come se Noce, nel corso di questa sua riflessione, a un certo punto di fosse fermato. Per proteggersi, per legittimo pudore dei propri sentimenti, per non affondare il colpo e rimanere in superficie. Non lo sapremo mai. È certo, però, che ricorderemo Padrenostro come un insolito dramma familiare. Una sublimazione cinematografica anomala, in cui un regista adulto inquadra il bambino che è stato, e finalmente lo abbraccia.
Conclusioni
In questa recensione di Padrenostro ci siamo accorti di quanto l’ultimo film di Claudio Noce nasca da un’esigenza personale. Il regista sublima un suo trauma personale dentro un’opera autobiografica, dedicata a un rapporto padre-figlio tutto da risolvere. Peccato che il racconto venga riempito da troppi elementi narrativi e sottolineato da un’enfasi spesso davvero troppo carica.
Perché ci piace
- La prova dei due giovani attori protagonisti.
- Favino è sempre una certezza.
- Alcune sequenze emozionano...
Cosa non va
- ...mentre altre risultano troppo artefatte ed eccessive per colpa di un'enfasi spesso fuori luogo.
- Alcuni depistaggi narrativi non fanno altro che distrarre dal tema centrale del film.