È stata proprio l'Italia, precisamente sette anni fa, a contribuire all'affermazione internazionale di Pablo Larraín. Il regista cileno, che allora aveva trentadue anni, fu infatti il trionfatore del Festival di Torino 2008 con Tony Manero, angosciante ritratto di un serial killer dissociato con una passione per John Travolta, premiato a Torino come miglior film e per il protagonista Alfredo Castro, attore feticcio di Larraín.
Nel 2010, Larraín ha raccontato il golpe del 1973 in Cile da parte del dittatore Augusto Pinochet con un dramma ancora più duro e sconvolgente, Post Mortem, ambientato quasi interamente all'interno di un obitorio. Al declino del regime di Pinochet, abbattuto nel 1988 mediante un referendum popolare, è stato dedicato invece il magnifico No - I giorni dell'arcobaleno, premiato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2012 e candidato all'Oscar come miglior film straniero. Infine, quest'anno Larraín si è aggiudicato l'Orso d'Argento al Festival di Berlino con il suo nuovo lavoro, El Club: uno sguardo originalissimo e spiazzante al fenomeno della pedofilia all'interno della Chiesa Cattolica, calato nel microcosmo circoscritto di una residenza in riva all'oceano in cui le autorità religiose hanno confinato un piccolo gruppo di ex sacerdoti (il "club" del titolo) allontanati dal servizio per le loro trasgressioni sessuali.
Leggi anche: Recensione di El Club
Opera complessa e rigorosa, ma attraversata anche da una strisciante ironia che assume risvolti quasi grotteschi, El Club (selezionato dal Cile per concorrere all'Oscar come miglior film straniero), che riconferma il formidabile talento di Larraín, è stato presentato venerdì sera in anteprima italiana alla decima edizione del Festival di Roma, nell'ambito di una retrospettiva al MAXXI su Pablo Larraín, mentre nelle sale italiane uscirà il mese prossimo distribuito da Bolero Film. Per l'occasione abbiamo incontrato il regista cileno, a Roma per una conversazione con gli spettatori del Festival, nel corso della quale ha avuto modo di ripercorrere il proprio cinema e di approfondire alcuni aspetti peculiari del suo lavoro.
Il cinema del mistero
Pablo Larraín, tu hai dichiarato che non saresti in grado di girare un film conoscendo ogni dettaglio del tuo protagonista, ma che preferisci scoprire i personaggi insieme al pubblico: come mai?
Pablo Larraín: Credo che per me la chiave del cinema sia il mistero: cerco sempre di non pensare troppo ai personaggi e di lasciarli un po' sconosciuti, perché questo alone di mistero contribuisce a mantenere l'alone di fascino del personaggio. Inoltre il fatto che i personaggi rimangano misteriosi crea una zona oscura in grado di trasmettere al pubblico una sensazione di pericolo, derivante appunto dall'ignoto.
Che tipo di regista sei e qual è il tuo rapporto con la macchina da presa?
Pablo Larraín: Mi piace la vicinanza alla macchina da presa: ci sono registi che preferiscono dirigere seduti davanti al video, ma io sono ossessionato dalla cinepresa. Essendomi formato come fotografo, sono affascinato dall'aspetto artigianale delle riprese, così come amo la ritualità dei gesti delle riprese, la loro meccanica, come il cambio della pellicola. E non ammetto battute quando la cinepresa è in funzione... a meno che la battuta non sia davvero divertente!
Quanto spazio lasci all'improvvisazione rispetto ai tuoi copioni?
Pablo Larraín: Del processo creativo di un film, la fase in cui cambio maggiormente lo script è nel momento in cui arrivo sul set: nel corso delle riprese il film si trasforma. Ho sviluppato un sistema che ho soprannominato le "scene X", ovvero scene che non erano state scritte prima di iniziare a girare: per El Club, queste scene costituiscono circa la metà del film completo, molto di più rispetto alle mie pellicole precedenti. Da regista mi piace lasciare spazio all'inaspettato, per poi rendere organico il lavoro in sala di montaggio.
Come ti trovi a collaborare con un gruppo ricorrente di colleghi?
Pablo Larraín: Ci conosciamo da diversi anni e ci piace lavorare insieme, quindi non ci sono forme di gerarchia: ciascuno è libero di dire ciò che pensa, a patto che siamo tutti attorno a un tavolo e con un bicchiere in mano. Prima di ogni film io e Sergio Armstrong, il direttore della fotografia, ci rechiamo sulla mia casa in riva all'oceano e trascorriamo lì una settimana, guardando film e leggendo libri per trovare i modelli da utilizzare per il nostro lavoro... e tra i film che guardiamo, ce n'è sempre uno di Pier Paolo Pasolini.
Larraín e la politica
Tu provieni da una famiglia di estrema destra, ma hai sviluppato idee politiche completamente opposte: come avete vissuto questo contrasto nella vostra famiglia?
Pablo Larraín: Mio padre è un politico di destra e anche mia madre ha opinioni conservatrici, quindi preferiamo parlare di altri argomenti anziché di politica. In compenso i miei nonni e diversi membri della mia famiglia appartengono ad altre fazioni politiche. Credo sia difficile per un padre accettare che il proprio figlio arrivi a sfidare le sue idee politiche, soprattutto in pubblico.
Ti consideri un regista politico?
Pablo Larraín: Mi interessano i personaggi che siano il risultato di un processo politico, più che la politica in sé. In genere, nel cosiddetto cinema politico, i protagonisti sono gli esecutori di un'ideologia, mentre in film come Tony Manero o Post Mortem i personaggi sono il frutto di un sistema sociale e sono individui ai margini della comunità, immersi in un'atmosfera di alienazione e destinati a restare dimenticati. Sono personaggi che negano il contesto in cui vivono, non ne prendono coscienza e quindi ne sono vittime: in questo senso, dunque, essi sono vittime di loro stessi.
A livello politico, quali reazioni hanno suscitato i tuoi film in Cile?
Pablo Larraín: I miei film parlano della dittatura e dei luoghi del potere, ma sono risultati scomodi anche alla sinistra. Ad esempio, No non è stato apprezzato né dalla destra né dalla sinistra in Cile: la destra si è vista rappresentata come una banda di fascisti idioti, mentre la sinistra avrebbe voluto una maggiore legittimazione verso il proprio operato. Il nucleo del film, invece, è il modo in cui il referendum ha visto prevalere il "no", ovvero come Pinochet sia stato eliminato dal suo stesso veleno. Io però voglio mantenere la giusta oggettività, non voglio essere un regista militante: non mi interessa prendere posizione per l'una o l'altra fazione, ma capire il contesto e contribuire a formare una coscienza politica. Credo che la macchina da presa non debba mai chiedere perdono per nulla. Quando mi chiedono se nei miei film c'è un messaggio, rispondo sempre che non mi interessa, ma che per me è fondamentale essere irresponsabili. Il cinema dell'America Latina all'epoca della dittatura cercava di apportare dei cambiamenti alla società, e questo era molto importante, ma oggi non è più così. Il cinema è come un bambino con una bomba in mano: una bomba che può esplodere da un momento all'altro. Penso che il vero cinema, il cinema capace di assestare un pugno nello stomaco, non voglia fare proselitismo, ma sia innanzitutto un'esperienza sensoriale.
I film, da Post Mortem a El Club
Come hai costruito la formidabile scena della manifestazione in Post Mortem, con la cinepresa che rimane stretta sul protagonista?
Pablo Larraín: Intanto perché per Post Mortem avevamo pochissime comparse. In ogni caso trovavo più interessante restringere l'inquadratura sul protagonista: avvicinarsi con la cinepresa a uomini così freddi aiuta a creare empatia, facendo coincidere la prospettiva del film con quella del personaggio. La vicinanza ad un volto contribuisce a farci sentire il personaggio e la sua visione del mondo. Inoltre, in questo modo la narrazione si arricchisce di suoni fuori campo, che sembrano partoriti dalla mente del protagonista e che invitano lo spettatore a riempire con l'immaginazione lo spazio al di fuori dell'inquadratura.
Nei tuoi film preferisci mescolare la realtà e la finzione, come hai fatto per No?
Pablo Larraín: Mentre stavamo girando alcune scene di No c'è stata una manifestazione spontanea che poi è confluita nel materiale di repertorio. In tal senso, il cinema somiglia molto all'operato di un mago, e queste sequenze reali creano una sorta di mimesi in grado di unire l'antico e il nuovo, trasformando entrambi in qualcosa di completamente diverso.
Come mai hai girato El Club in così breve tempo?
Pablo Larraín: El Club si inserisce nel processo di un altro film: stavo lavorando alla sceneggiatura di una pellicola più complessa, Neruda, che poi è stata rimandata, lasciando spazio libero a quest'altro progetto. El Club è stato realizzato molto rapidamente, ma la natura stessa del film lo consentiva: la sceneggiatura completa non è stata data agli attori, e questo ha precipitato il cast in una sorta di limbo, facendo sì che la macchina da presa potesse catturare il loro presente, ignorando invece il loro passato quanto il loro futuro.