A poco più di un mese dall'uscita del 19 dicembre, abbiamo avuto modo di vedere ben 40 minuti in anteprima di Mufasa, il prequel de Il re leone nella sua versione in animazione realistica che aveva macinato record di incassi nel 2019. E, siamo felici di dirlo, siamo stati piacevolmente stupiti da quanto abbiamo visto, perché ci è apparso evidente che il nuovo lavoro potrebbe convincerci più della precedente incarnazione della storia, che nel passaggio dall'animazione tradizionale alla CGI aveva perso qualcosa in termini di caratterizzazione dei personaggi. Un problema di cui questa nuova storia, raccontandoci qualcosa di nuovo e non ancora esplorato, potrebbe non risentire.
Anche grazie alla mano di un regista che, nel corso della presentazione romana, ci ha colpiti tanto quanto il suo stesso film, se non addirittura di più: Barry Jenkins, lo stesso autore di Moonlight, Se la strada potesse parlare o la serie La fettovia sotterranea, che ha accompagnato la presentazione del footage in anteprima raccontandoci alcuni retroscena del suo coinvolgimento e della lavorazione. Colpendoci, soprattutto, per una serenità e profondità capace di conquistare.
Un iniziale... no
"Non ho mai capito perché Disney mi abbia voluto per questo film" ha raccontato Barry Jenkins, "e la prima volta che sono venuti da me ho detto di no." Un no secco, anche immotivato, perché "non avevo nemmeno letto lo script." Gli dissero che non avrebbero potuto rispondere di no, ma Jenkins fu inizialmente inamovibile e solo in un secondo momento chiese ai suoi agenti come fosse lo script. "Mi dissero che non potevano leggerlo, che solo io l'avrei potuto leggere." E questo iniziò a stuzzicare la sua curiosità, ma fu solo quando la moglie, la regista di The Farewell Lulu Wang, gli fece notare che sarebbe stato infantile non leggerla che si convinse.
"Il motivo per cui oggi avete visto 39 minuti e 15 secondi" ci ha detto, "è che quello è il punto della sceneggiatura in cui ho smesso di leggere, mi sono girato verso di lei e le ho detto che c'era qualcosa di speciale e che avrei dovuto considerare di realizzare il film. È la sceneggiatura che mi ha convinto."
La sfida del mainstream
Jenkins non è il primo artista indipendente che ha fatto il salto verso una produzione di una major come Disney, basti pensare a Chloe Zhao con Eternals o Greta Gerwig con Barbie. Il motivo per Jenkins è semplice: "siamo la prima generazione di cineasti che è cresciuta con questo tipo di cinema. I franchise non esistevano negli anni '70 o '60, mentre la generazione di cui faccio parte io, Ryan Coogler, Greta Gerwig, tutti amici con cui ho parlato prima di accettare questo film, è la prima che è cresciuta con titoli del genere che erano i film della nostra infanzia. Vedere qualcosa come Il Re Leone, Toy Story, Die Hard o Terminator 2 e Independence Day al cinema, sono i film con cui sono cresciuto."
Gli sarebbe piaciuto crescere con il cinema d'autore, "con i film che hanno vinto il Leone d'oro" ha aggiunto, ma quei film gli sono arrivati dopo: "la mia vita è divisa in due. Ci sono film che guardavo prima di andare alla scuola di cinema e quelli che ho guardato dopo."
L'universalità de Il re leone
E c'è qualcosa che colpisce di film come Il re leone: "sono qui con qualcuno che mi traduce in italiano, ma sono stato a Madrid, a Parigi, in Corea o Giappone. In tutto il mondo, perché questo film esce in tante lingue diverse. Ma se prendi un peluche e fai questo [solleva il microfono verso l'alto tenendolo con due mani ndr] è un simbolo culturale che condividiamo tutti e per 30 anni abbiamo saputo che Mufasa è un grande personaggio, che è un re perché suo padre era un re e suo nonno era un re. Che tutti quelli che sono nati su questo percorso diventano re e che Scar è cattivo perché è nato cattivo."
Ma è così? "Ho sempre creduto a questa idea che indole e formazione influiscono in ugual misura. Come avete visto nella prima mezz'ora, Mufasa perde la sua famiglia ed è adottato da quella di Taka. E il padre di Taka è una cattiva persona che gli fa fare cose negative. La madre dice invece a Mufasa cose positive, di unione con la terra e di essere in sintonia con i propri sentimenti. Nel momento in cui uno è cresciuto da un genitore e uno dall'altro, iniziano a condurre vite completamente diverse e diventare persone differenti. E se le cose fossero stare al contrario?"
Un'idea che Jenkins trasla anche sulla politica americana e internazionale, quando gli viene chiesto un parere sull'attuale situazione, domanda che accoglie con il sorriso di chi si aspetta che si indaghi in tal senso.
Crescere con Disney
Ci si ricollega a quanto accennato prima, all'idea di un'impronta culturale che va oltre i confini dei singoli Stati, per chiedere a Barry Jenkins quali siano i film Disney con cui è cresciuto. Lo sentiamo intonare "Part of The World", da una delle canzoni più popolari de La Sirenetta, ma il regista cita anche Il re leone che "ho visto molte volte con i miei nipoti" e Fantasia: "ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di bello nel modo in cui Disney usa le immagini come metafore. Quando ho iniziato a lavorare a questo film ho voluto portare un po' di quella magia fantastica nell'universo. Nel film, quando c'è la canzone Mielele, il terreno cambia colore, le farfalle vengono fuori dal nulla, e così dopo l'inondazione, dopo che Mufasa lascia la sua famiglia: fluttua nello spazio, fuori dal tempo, tutto è rosso e verde ed è come Dante che passa da un regno all'altro."
La sfida di Mufasa
Mufasa è un film diverso da quelli a cui Barry Jenkins ci aveva abituati, tra spinta tecnologica e uso delle canzoni. Qual è stata la sfida principale? Non le canzoni, per le quali si è affidato a un'autorità del settore come Lin-Manuel Miranda, che "non ha voluto sostituirsi all'eredità de Il Re Leone, ma aggiungere a essa". Sicuramente la componente visiva e tecnologica è stata la più impegnativa: "abbiamo dovuto imparare a usare gli strumenti per ottenere il risultato che volevamo". Su quattro anni di lavorazione, ci parla di un anno e mezzo per imparare questa parte del lavoro, insieme all'azienda di Jon Favreau, che aveva già realizzato il primo film e che "si è dimostrata disponibile ad adattarsi a noi."
L'idea è chiara e comprensibile: "usare la tecnologia in modo da padroneggiarla e non essere invece controllati da essa. Metterla al nostro servizio e non essere al suo." Questa è stata la parte difficile del lavoro, che è stato poi eseguito con i suoi soliti collaboratori, dal montaggio alla fotografia, sfruttando nuovi strumenti a propria disposizione. Come in molta animazione, hanno prima registrato gli attori e sono andati anche oltre: hanno montato l'intero film solo con l'audio. Su quello sono intervenuti gli artisti degli storyboard e poi gli animatori, realizzando quella che Jenkins chiama "una versione con grafica da PS3 del film".
Complessa anche la fase di animazione, per dare credibilità a degli animali che avrebbero dovuto recitare, che hanno quattro zampe invece di due, un peso diverso, un'occupazione dello spazio differente da un essere umano. Un lavoro diverso dal performance capture che si può fare, per esempio, per Andy Serkis su Il Pianeta delle Scimmie.
La complessità dei tempi in Mufasa
Come accennato, figure complesse animano Mufasa - Il re leone, personaggi che non dovevano essere solo buoni o cattivi, il cui comportamento è dettato, modificato, dal contesto in cui si trovano a crescere. La stessa complessità si applica alle figure dei genitori, più sfaccettate di quelle che avevamo in film di 20 o 30 anni fa: "il mondo è cambiato ed è nostra responsabilità mostrare ai ragazzi una rappresentazione più complessa della realtà. Se non lavoriamo in tal senso, facciamo loro un disservizio, perché li mandiamo in un mondo in cui sono bombardati da immagini e stimoli. Sono sempre alla ricerca di qualcosa che li prepari al mondo."