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Prodotta da Palomar di Carlo Degli Esposti e Nicola Serra in collaborazione con Prime Video, è disponibile sulla piattaforma di streaming dal 17 gennaio Monterossi, serie in sei episodi ispirata ai romanzi di Alessandro Robecchi. A interpretare l'autore televisivo che si trasforma in detective suo malgrado (un uomo tenta di sparargli sulla porta di casa) è l'attore Fabrizio Bentivoglio.
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Alla regia c'è invece Roan Johnson, anche sceneggiatore, che per queste sei puntate ha adattato due romanzi di Robecchi: "Questa non è una canzone d'amore" e "Di rabbia e di vento". A completare il cast anche Carla Signoris, che è la conduttrice televisiva Flora, Tommaso Ragno, Donatella Finocchiaro, che ha il ruolo di Lucia, giornalista di cui il protagonista è ancora innamorato, Martina Sammarco e Luca Nucera, che sono rispettivamente Nadia e Oscar, scrittori che collaborano con Monterossi.
Ambientata a Milano, la serie racconta le indagini dello scrittore - detective, appassionato di Bob Dylan e tifoso dell'Inter, che cerca di capire la modernità sempre più presente nella sua città, che a volte non riconosce più. Ne abbiamo parlato proprio con Fabrizio Bentivoglio, Roan Johnson e Alessandro Robecchi, raggiunti via Zoom.
La video intervista a Fabrizio Bentivoglio, Roan Johnson e Alessandro Robecchi
Monterossi e l'importanza delle parole
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Oscar dice a Monterossi che ognuno combatte con le armi di ha. Le sue sono sicuramente le parole. Quanto sono importanti le parole oggi secondo voi?
Roan Johnson: Dobbiamo partire da un paradosso: da un lato sono importantissime, perché basta vedere il mondo non soltanto della televisione ma anche dei social. È tutto un parlare. Questo di solito crea casini, ma anche no. Dall'altro c'è questo profluvio di parole, quindi a un certo punto perdono anche di significato e sembrano inutili. Ed è qui che secondo me Monterossi fa lo scarto: dal parlare, dal blah blah blah per citare Greta Thunberg, passa anche all'azione. La scena di svolta del personaggio è quando, di notte, vede un video di Lucia in cui dice: "A volte bisogna agire anche in prima persona". E lui lo dice a Nadia. Anche se forse non l'avrebbe mai fatto se non avessero tentato di sparargli. Credo che parole e azioni se non combinate insieme siano poco importanti.
Alessandro Robecchi: Nell'accezione morettiana le parole sono assolutamente importanti, però anche quello che si dice con le parole. Non solo il modo di esprimersi, ma anche quello che si dice.
Monterossi: serialità vs televisione
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Monterossi riflette anche sul linguaggio della serialità in contrapposizione a quello della televisione. Siccome oggi il cinema è sempre più in crisi e le serie invece sono sempre più viste e seguite, sono proprio queste che ci aiutano a capire meglio la realtà? E se è così cosa ci dice Monterossi del mondo di oggi?
Roan Johnson: Sono molto contento di aver scritto e diretto questa serie perché amo il fatto che una narrazione può prendersi delle profondità e delle evoluzioni che il film in 90-100 minuti non può fare. Sì, le serie sono il nuovo romanzo popolare: credo che come i romanzi popolari e come tutta la narrazione che abbiamo messo in campo, quando è fatta bene e con un certo grado di onestà, sia anche benefica. Credo che questa serie qui, con un punto di vista molto originale, che è quello di Monterossi - Robecchi, provi a decifrare e decodificare una modernità che non soltanto per una generazione passata, ma credo anche per i più giovani, sia a volte veramente misteriosa. È talmente contraddittoria e paradossale nelle sue manifestazioni che ti sfugge. Quindi il lavoro che fa Monterossi e la serie è cercare di capire se, in questo calderone di casini, c'è qualcosa da salvare e qualcuno a cui portare dei tesori.
Monterossi e il confronto generazionale
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Monterossi è uno della vecchia scuola che però si confronta molto con i giovani. C'è un bello scambio: i giovani imparano da lui e lui da loro. Questa cosa oggi c'è anche nel cinema italiano o no?
Fabrizio Bentivoglio: Mi sembra che ci sia più comunicazione di quella che c'era quando io ho incominciato tra quella che era la vecchia generazione e la nuova. Quando io ho cominciato, alla fine degli anni '70, c'era una distanza siderale tra me e Gian Maria Volonté. Ma siderale proprio. Oggi non c'è questa distanza siderale tra un ragazzo che comincia e me o Tommaso Ragno. Anzi. Credo la mia generazione, da Marrakech Express in poi, abbia completamente sbaragliato questi vecchi modi di pensare e di comportarsi di conseguenza, vagamente autoritari, dove l'idea di fare cinema era di soffrire in silenzio. Fare cinema è divertimento. Ci si può divertire. Anzi: ci si deve divertire facendolo. Perché se non ti diverti facendolo non si divertirà mai nessuno guardandolo.