Miss Italia non deve morire non è un semplice documentario. Anzi, l'etichetta gli sta pure stretta. Pietro Daviddi e David Gallerano, in un'ora e quaranta, si agganciano al tema universale del cambiamento - e all'impreparazione davanti ai cambiamenti stessi - per ricominciare dalle basi di un "elemento di identità nazionale". "Una tradizione, da ottantacinque anni", dice Patrizia Mirigliani, appena entra in scena, in un'opera Netflix che, finalmente, ci fa sottolineare la qualità. "La storia di tutte le donne italiane", continua Patrizia, dal trucco sempre perfetto, "Miss Italia per mio papà era una figlia, ma ora nemmeno io la riconosco". Il tono è chiaro, e il ritmo, coadiuvato da un montaggio che non sbaglia un sincrono (e l'ottimo lavoro lo fa anche lo score di Belgio), inizia a miscelare ottant'anni di Miss: cosce lunghe, sorrisi smaglianti, lacrime e lati b. Poi, la storia finisce perché "Missi Italia è stata superata dalla realtà". Niente di più vero. Altro che femminismo: Miss Italia non è più quella di prima perché i concorsi di bellezza sono stati sostituiti da TikTok e Instagram.
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E per questo, al centro della narrazione, si rimbalzano due modi di pensare: i vecchi agenti sparsi sul territorio - tra cui lo storico toscano Jerry Stefanelli, figura centrale nel film - legati ad un sistema retrogrado, mentre quelli nuovi pronti ad accettare a buon viso "le nuove regole di Miss Italia". In mezzo, l'equilibrismo di Patrizia Mirigliani, che da papà Enzo ha ereditato un marchio decaduto ma, ancora, incredibilmente influente (nonostante le ultime edizioni, somiglianti ad una sagra di paese). In fondo, Miss Italia non deve morire, nel suo cuore, è anche e soprattutto una storia famigliare. Un'epopea: da Enzo a Patrizia al rampollo Nicola Pisu, quel figlio ereditiere con un percorso di vita estremamente complicato, rivelandosi figura tragica tanto quanto l'effige del format nato nel 1939 (diventando Miss Italia solo nel Dopo Guerra).
Miss Italia non deve morire: oltre le gambe c'è di più
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Daviddi e Gallerano, che hanno scritto l'opera insieme a Romeo Gregorio, dimostrano di saperci fare, e molto, in termini di narrazione e di regia. Tanto che l'attenzione non crolla mai, e viene mantenuta vivida da un racconto scintillante nella sua straordinaria decadenza intellettuale: personaggi disgraziati e figure retoriche (perfette per generare quelle contraddizioni narrativamente vitali), sorrisi finti, una latente disperazione che si lega ai sogni infranti di quelle ragazze bellissime, cresciute con il desiderio impossibile di lasciare il segno. Quanta tenerezza, quanta inconsapevolezza nei loro occhi. Che voglia di abbracciarle, di dire loro che sì, davvero, "oltre le gambe c'è di più".
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Del resto, ci dice Patrizia, oggi la bellezza non basta più: il bikini in tv, da conquista epocale, è divenuto un simbolo di mercificazione, combattuto da una new wave femminile e femminista. "In questo momento è tutto fermo, non pensiamo sia tutto bloccato, crediamo solo ci siano delle fazioni contrarie. Incrociamo le dita", anticipa la Mirigliani, con l'iPhone in mano in attesa di una chiamata dalla Rai. Perché Miss Italia non deve morire fa i giri larghi, per poi ristringersi: dalla passerella di Salsomaggiore Terme a quelle dei centri commerciali, in un documentario che ricorda il miglior formato cinematografico. Tanto che ragioniamo: Missi Italia non deve morire è puro storytelling. Nella sua ironia, nel sua scrittura, nella sua traccia politica. È la realtà che si mescola al racconto. I registi, insomma, seguono un momento nevralgico delle Miss, accompagnano la speranza di Patrizia Mirigliani nei delicatissimi mesi che anticipano i palinsesti Rai. E sapere che poi Miss Italia sia stato poi respinto dalle reti di Stato rende il film ancora più crudele.
Un'opera amara
Parallelamente alla Mirigliani, il racconto si concentra su Aurora Miniaci, vera illuminazione. Bellezza oltre i canoni, capelli corti, felpa e look da maschiaccio . "Nessuna è sé stessa sopra la passerella. Tanto vale che fingo anche io", dice, facendo le prove sul terrazzo di casa, illuminato dalla tipica luce di Roma Est. Aurora è il netto contrario, è l'antitesi e pure la rivelazione. È l'elemento di rottura all'interno di un ecosistema basato sui canoni e sull'apparenza, pur volendo lei stessa - e rieccoci nella contraddizione - abbracciare un format che, pur più abbottonato, si rifugia nella superficialità e nell'estetica. "Ogni uomo può pensare che io sono un oggetto, anche se vado in giro con la minigonna. Bisogna superare gli stereotipi"_, dice, prima dell'ennesima seleziona da superare. E vai a darle torto.
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La verità, inaspettata e sibillina, che piomba al centro di un circo fatale nella suo ineluttabile tramonto che vorrebbe riassumere tutto in un hashtag. È questo, in fondo, il fuoco che arde in Miss Italia non deve morire: momenti di alto cinema, specchio popolare, esame di coscienza, evoluzione femminile. Un'opera piena, forse anche troppo, che non lascia scampo, risuonando in un'amarezza finale non dissimile da quella delle migliori commedie all'italiana.
Conclusioni
Daviddi e Gallerano mettono in scena un'opera di grande impatto, privilegiando uno sguardo immersivo e diretto nel mondo ormai sbiadito (ma ancora influente) di Missi Italia. Una riflessione acuta e decisamente amara, che gioca sul dramma dell'ineluttabile cambiamento e sull'ironia depressa di un pugno di personaggi archetipici. Specchio nazionalpopolare, tripudio dell'effimera bellezza. Un film che sembra un documentario, e viceversa. Il colpo vincente per rileggere le Miss sotto una luce tutt'altro che splendente. Da non perdere.
Perché ci piace
- Il linguaggio narrativo scelto. Quasi ibrido.
- La figura di Aurora Miniaci.
- Una latente drammaticità in bilico con l'umorismo.
- Uno specchio amaro, e vero.
Cosa non va
- ... ma forse un po' troppo preparato?