Non sono passati nemmeno sei mesi da quando si discuteva se Soul potesse essere un film d'animazione adatto per un pubblico di bambini che subito, a riportare in auge le conversazioni sulla Pixar e sulle aspettative legate alla qualità delle opere di questi incredibili artisti ci ha pensato un mostro marino di nome Luca. Sin dalle prime immagini, il film di Enrico Casarosa è stato vittima di un pregiudizio che, al seguito della visione, è risultato confermato da più parti: Luca è un film sotto gli standard della media della Pixar. Poco innovativo, troppo semplice, sviluppato secondo una formula ormai consolidata (è il ventiquattresimo lungometraggio dello studio in ventisei anni) e, benché tecnicamente ineccepibile, non contiene quell'originalità che ci si aspetta da un colosso come la Pixar. Certo, Luca non contiene quegli elementi straordinari (cioè, per definizione, fuori dall'ordinario) presenti in opere come Inside Out o Soul, in cui si cerca di sperimentare nuove soluzioni visive e parlare di temi più esistenziali e filosofici, ma forse, spinti da un dibattito sempre più polarizzante ed estremista, si sono messi in secondo piano i veri elementi che rendono il film di Casarosa l'ennesimo meraviglioso gioiello animato della Pixar. Non chiamatelo film minore: Luca è la dimostrazione di quanto non sia importante cosa si racconta, bensì come lo si racconta.
Il posto delle trenette
Dov'è l'amico che il mio cuore ansioso ricerca ovunque senza avere mai riposo? Finito il dì ancor non l'ho trovato e resto sconsolato. La Sua presenza è indubbia ed io la sento in ogni fiore e in ogni spiga al vento. L'aria che io respiro e dà vigore del Suo Amore è piena. Nel vento dell'estate la Sua voce intendo. (Ingmar Bergman, Il posto delle fragole)
In una delle scene più memorabili del capolavoro di Ingmar Bergman Il posto delle fragole, il protagonista, seduto a tavola, mentre sta mangiando con la figlia e un gruppo di altri ragazzi pronuncia, ad alta voce quest'ode di stampo sacrale. Per quanto lontanissimo dal colore e dal tono del film svedese, Luca sembra partire proprio da questo stesso sentimento. Enrico Casarosa non ha mai nascosto il suo sguardo nostalgico e verso la memoria delle sue estati in Liguria come ispirazione per la storia di Luca. È un film che si mostra attraverso i sapori e gli odori dell'estate italiana, fatta di gelati, di trenette al pesto, di sole, di vento e di amicizie. Uscendo dal suo mondo sottomarino, che non ha bisogno di un world-building e che si accontenta di essere una sterminata prateria blu, asettica e poco affascinante, Luca scopre il mondo della superficie, lì dove sta la meraviglia. Se quella di Luca (personaggio) è una vera e propria scoperta, noi spettatori ci rendiamo conto subito che Luca (film) si sta dipingendo coi colori della nostalgia, di un tempo perduto non solo del regista, ma anche nostro. Perché sin da quella breve sequenza in cui Luca, appena uscito dall'acqua, respira e percepisce le onde del mare, il fruscio delle foglie, le cicale nascoste sui fili d'erba, gli uccelli in volo (richiamando anche la scena dell'epifania del precedente Soul), lo spettatore viene catapultato in quel viale dei ricordi composto da amicizie lunghe un'estate, avventure intraprendenti senza il controllo dei genitori, nuove conoscenze che, in qualche modo, ci hanno cambiato. In Soul, al contrario dei precedenti film Pixar, allo spettatore veniva richiesto uno sforzo maggiore: aver vissuto una vita simile a quella del protagonista Joe per poter davvero arrivare al cuore del film. Luca invita allo stesso sforzo: siamo noi spettatori a dover vedere oltre le apparenze. Non è un caso che sia l'acqua l'elemento che riporta i due amici nella loro forma originaria, quella di mostri marini. Anche noi spettatori dobbiamo purificare il nostro sguardo (da sempre il senso più importante per la Pixar, quello del vedere, unito alla macchina cinematografica disvelatrice di sogni e realtà) per scoprire il vero, oltre ciò che sembra.
Semplice non vuol dire minore
Quanto è difficile raccontare una storia senza perdersi in narrazioni formate da complicati e asettici labirinti. La vera rivoluzione, per un pubblico ormai abituato a voler essere costantemente sorpreso attraverso racconti di portata epica, è quello di riuscire a condensare in meno di 85 minuti (escludiamo i titoli di coda) un racconto di amicizia, di scoperta e di crescita. Arrivare così a un pubblico eterogeneo e trasversale e riuscire a far funzionare una storia attraverso vari livelli di lettura. Un film come Luca funziona proprio grazie all'onesta semplicità della storia, che sa asciugare tutto il superfluo e riesce a centrare i temi preponderanti con una schiettezza che lascia sorpresi. Questo perché non bisogna confondere la semplicità alla stregua di un difetto dell'opera. Ciò che rende Luca incredibilmente riuscito, tanto da non poter essere minimamente considerato un'opera minore dello studio, è la maniera in cui questa semplicità viene raccontata. D'altronde, cinema vuol dire montaggio delle immagini, ritmo, causa ed effetto, ma anche racconto di ciò che si guarda. A Luca bastano le occhiate che Alberto dedica a Giulia quando questa si pone in mezzo ai due ragazzi, le scuse che avvengono dopo una scalata sulla torre a mani nude (troppo semplice con la scala, chiedere scusa costa fatica, bisogna volerlo davvero fare), il freak del Paese senza un braccio che riconosce i mostri come parte della famiglia, le occhiate al cielo della gente del posto quando compare in scena l'odiato Ercole. Ma anche al modo in cui Luca abbandona Portorosso e la sua famiglia per scoprire ciò che il mondo ha da offrirgli, con quell'ultimo saluto dentro la galleria che chiude, come una tenda, la figura di Alberto. Il treno, metafora del cambiamento, un mezzo che comunica con il passato e il futuro: guardare indietro vuol dire lasciarsi il passato alle spalle, guardare avanti significa essere pronti al nuovo. È il risultato di uno studio d'animazione che ha sempre avuto grande fede nel proprio pubblico e che anche stavolta usa il linguaggio cinematografico al suo meglio per poter emozionare. Non può essere un film minore, un'opera che, dichiaratamente, preferisce un motorino rovinato e scassato alla Vespa rossa fiammante di Ercole.
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Come lacrime nella pioggia
La sequenza finale di Luca racchiude tutto il senso del film. Non solo pone fine alla storia, ma concentra i motivi che ne elevano l'opera. La pioggia simboleggia la fine dell'estate, l'assenza di quel sole caldo che aveva accompagnato la storia di Luca, Alberto e Giulia a Portorosso. È il momento dell'addio, perché un po' a sorpresa Luca può andare a vivere con Giulia a Genova, andare a scuola e saziare la sua fame di conoscenza. O di scoperta. Il vero motore che spinge Luca a uscire dal suo mondo sottomarino è la voglia di scoprire, di non adagiarsi all'interno delle mura domestiche, di una vita ordinaria ed esprimere finalmente sé stesso. Per meglio dire: essere sé stesso. Prima mostro nel suo habitat naturale, poi travestito per non turbare e preoccupare gli abitanti di Portorosso, Luca finalmente abbraccia la sua vera natura, il suo io vero senza nascondersi o recitare una parte (il momento in cui tradisce Alberto per salvarsi è la chiave di volta del suo comportamento). È un personaggio pavido, timido e pauroso, eppure grazie all'amicizia riesce a migliorarsi e crescere ("Silenzio Bruno!") prendendo la decisione di uscire dalla propria comfort zone, nonostante tutto. Piove mentre Luca e Alberto si salutano (che meraviglia vedere quegli occhi giganteschi riempirsi lentamente di lacrime) e ricordano di essersi salvati a vicenda: entrambi sono riusciti a fuggire dalla propria isola (che sia fisica o mentale) per appartenere al mondo. Prima confinati dal e nel mare, sanno di aver costruito dei ponti necessari per poter vivere. Per questo motivo le lacrime di tristezza si possono confondere nella pioggia che, di contro, è anche liberatoria, capace di svelare anche la vera natura di Luca. La tristezza viene lavata dal viso, i raggi del sole fanno capolino dalle nubi, la galleria separa il passato dal futuro. Lo stesso protagonista volge un ultimo sguardo a ciò che si sta lasciando alle spalle per poi cambiare posizione e rivolgere i propri occhi (e il proprio sorriso) verso ciò che sta per raggiungere.
Triathlon per lo spettatore
Nuotare, mangiare un piatto di pasta, pedalare lungo una discesa. Sono le tre sfide che compongono la Portorosso Cup, il triathlon a cui i protagonisti decidono di partecipare. Tre sfide che, prese singolarmente, appaiono semplici e banali, ma che una dietro l'altra diventano un'impresa ardua da reggere. Luca è un film che sfida lo spettatore a un triathlon simile: è composto di singoli elementi, semplici come un piatto di pasta condito con il sugo al pesto (che necessita una buona dose di preparazione per farlo nel migliore dei modi). Singoli elementi di semplicità apparente che messi insieme, però, compongono uno dei film più emozionanti e pieni di calore (estivo) dello studio d'animazione. È anche il senso del film stesso: la somma è più importanti delle singole parti. Fortunatamente il cinema vive di unione: non può esistere solo la figura di un singolo individuo per dare vita a un'opera cinematografica e il film stesso, una volta concluso, merita una visione condivisa (e per questo dispiace non aver potuto apprezzare questo film sul grande schermo di un cinema che l'avrebbe sicuramente valorizzato ancora di più). Un film non è composto solo da singole inquadrature, singoli personaggi e nemmeno da singoli aspetti tecnici (la musica, la CGI, la sceneggiatura...), ma da come questi aspetti dialogano tra loro, apportando valore aggiunto tra di loro. Sta allo spettatore scegliere se sforzarsi di portare a termine la gara o cedere al primo ostacolo, se avere la curiosità di conoscere un nuovo mondo o di fermarsi all'ordinario. D'altronde non è un caso che lo zio Ugo, per quanto simpatico, compaia solo in due brevi scene. Liberi di rimanere negli abissi più profondi, ma che claustrofobia quel nero assoluto dopo 90 minuti di vita.