Recensione Sonatine (1993)

In Sonatine tutto si sospende e rallenta, la temporalità delle statiche inquadrature si dilata per poi accelerare all'improvviso e la loro successione narrativa si frammenta in piccoli segmenti; uno spiazzante teatro di orrore e poesia, dove la violenza e la crudeltà non sono che una routine insapore dettata unicamente dalla paura e dall'inquietudine del vivere.

Lo Yakuza Eiga secondo Kitano

Presentato al festival di Cannes del 1993 e vincitore al Festival di Taormina nello stesso anno, Sonatine è l'opera che ha fatto scoprire definitivamente il genio di Takeshi Kitano all'Europa. Nelle sale italiane arriverà però solo dopo il successo di film come Hana-bi e L'estate di Kikujiro. Facile confondersi (e in Italia accade spesso); bastano pochi schizzi di sangue per escludere un'opera dalla distribuzione. Ma altrettanto immediate risulteranno, ben sette anni più tardi, le ragioni della sua riscoperta. Sarà sufficiente il richiamo oltre confine e un premio al Festival di Venezia per convincersi che è giunto il momento di andare oltre le apparenze, al di la di un'inutile censura della violenza, perché Sonatine è molto di più che una storia i cui protagonisti si uccidonoo a vicenda senza un'eroica, accettabile ragione.

L'impassibile volto di Kitano, qui nei panni dello yakuza Murakawa, è quello di un uomo disincantato, ormai stanco del proprio lavoro e di una quotidianità monocroma. Solo un'ultima missione prima del desiderato congedo, spostarsi da Tokyo a Okinawa per ristabilizzare i rapporti tra due bande in conflitto. L'incarico, poco convincente sin dall'inizio, si rivela ben presto una trappola per eliminare Murakawa e i suoi uomini. Una serie di violenti attacchi costringerà la banda a rifugiarsi in una capanna in riva al mare, un luogo sospeso e distaccato dalla realtà, dove non resta altro che lasciar trascorrere, lento quanto inesorabile, il tempo e, tra giochi infantili e presagi di morte, esorcizzare la paura prima dell'inevitabile scontro conclusivo.

Kitano fa i conti con un genere molto noto in Giappone, quello degli yakuza eiga reso storico dal maestro Kinji Fukasaku, ma la sua gelida cronaca degli scontri tra bande criminali si rivela essere solo la punta di un iceberg che nasconde una ben più vasta realtà sommersa. Più a fondo, oltre le straordinarie ellissi sanguinolente e l'antieroismo dei personaggi, c'è il diario intimo di un malessere (lo stesso in cui sprofonderà il regista in quel periodo). Dietro le quinte di questo particolare teatro della crudeltà si cela la complessa e dolorosa trama della solitudine. In Sonatine amara ironia, violenza e sentimento si incontrano, si fondono, giocano e danzano in riva al mare e tra strade cittadine semideserte. Le immagini sono quelle di farseschi teatrini, improvvisati incontri di sumo sulla spiaggia, di giochi dal sapore infantile. I primi piani su cui si sofferma la macchina da presa ritraggono personaggi dall'espressione imperturbabile che talvolta si abbandona e si apre a tristi sorrisi; volti come quello del protagonista, uno straordinario Kitano, che muove prima di tutto su se stesso il complesso lavoro sugli attori, un volto modellato dalla lucida consapevolezza di chi è ormai in grado di sorridere di fronte alla morte e di giocarci con cinismo e scanzonata follia.

In Sonatine tutto si sospende e rallenta, la temporalità delle statiche inquadrature si dilata per poi accelerare all'improvviso e la loro successione narrativa si frammenta in piccoli segmenti. E' evidente come il regista dimostri di sentirsi ormai definitivamente padrone del mezzo cinematografico, di fatto questa pellicola segna il definitivo passaggio di Kitano al cinema indipendente (chiusi i rapporti con la casa di produzione Shochiku, con cui aveva collaborato fino a quel momento, per fondare infatti la propria Office Kitano). Il risultato sarà uno spiazzante teatro di orrore e poesia, dove la violenza e la crudeltà non sono che una routine insapore dettata unicamente dalla paura e dall'inquietudine del vivere.

Sonatine, non a caso, è considerato da molti il capolavoro assoluto dell'ormai famosissimo regista nipponico; un film, forse, non ancora totalmente maturo - come lo è l'esecuzione di una sonatina per chi impara a suonare il pianoforte - ma che già presenta molti dei tratti inconfondibili del cinema di Kitano, quei tratti che lui stesso si è divertito a dissacrare nell'ultimo Takeshis'.