È difficile essere donna. C'è una discrepanza sempre più profonda che separa l'essere femminile da quello maschile. Dietro a ogni battaglia, ogni megafono accesso, ogni parola urlata a gran voce in nome di un'uguaglianza di genere, di reddito, di merito, c'è sempre un caso di cronaca pronto ad acuire tale divergenza.
Come sottolineeremo in questa recensione de Lo stato dell'Alabama contro Brittany Smith, il documentario diretto da Ryan White e disponibile su Netflix, si fa manifesto cinematografico di un'ingiustizia che supera i confini dello schermo per intaccare le radici di una società che arranca, senza avanzare mai. E così, nel nucleo pulsante di un paesino del sud degli Stati Uniti, la diseguaglianza di genere colpisce a pieno volto anche i casi di omicidio. Perchè essere donna vuol dire anche vedersi ostacolata, bistrattata, nel momento in cui ci si aggrappa al diritto di difesa, nella speranza di essere scagionata da una condanna ingiusta, solo perché non si appartiene al sesso maschile.
Lo stato dell'Alabama contro Brittany Smith: la trama
Quella di Brittany Smith è una storia straziante di duplice violenza. Dopo essere stata abusata sessualmente, per salvare la vita di suo fratello e la propria, la donna decide di uccidere il proprio aguzzino. Un atto compiuto per legittima difesa, ed è proprio facendo appello alla legge "Stand Your Ground" dell'Alabama che Brittany spera in una riduzione della pena. Ma forse le cose non andranno come sperato e solo perché donna.
l'ingiustizia dell'essere donna
Essere donna è difficile, soprattutto in un paesino povero, sterile, relegato a un sistema patriarcale e maschilista; essere donna è difficile, soprattutto se per salvarti la vita, dopo che il tuo corpo è stato abusato, colpito, ridotto a oggetto di un'insana lussuria filtrata dallo sguardo della droga, decidi di premere un grilletto per liberarti dalla minaccia. Nell'attimo di uno sparo, Brittany Smith passa da donna libera a pedina di un sistema giudiziario lacunoso e ingiusto; un sistema dove una legge come quella denominata "Stand your ground" possa essere facilmente applicata nel microuniverso maschile, ma non in quello femminile. Seguendo a stretto contatto Brittany e sua madre, tra le vie della cittadina di Stevenson, e le strette aule di tribunale, la cinepresa di White intende redigere un manifesto di accusa ai danni di un sistema in cui la legge non è uguale per tutti, ma influenzata da lettera, da quella "F" o "M" applicata sulla carta di identità.
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Documentari in reality-show
Nell'universo documentaristico de Lo stato dell'Alabama contro Brittany Smith non c'è spazio per corpi bloccati su una sedia, pronti ad aprirsi a una cinepresa elevata al ruolo di confessore. Per un'esistenza limitata nello spazio e nel movimento, perché posta sull'orlo minaccioso di un eterno stato di prigionia, la cinepresa lascia libere Brittany e sua madre di spostarsi, muoversi, limitandosi a inseguirle nei momenti precedenti e susseguenti le fasi del processo. Senza arrogarsi il diritto di surclassare, o porre in secondo piano, le fasi salienti di un'esistenza in bilico tra libertà e reclusione, la regia di White si limita a registrare i pensieri e le emozioni lasciate confluire da ogni protagonista nello spazio di un movimento. Non ha bisogno di puntare su primissimi piani indagatori, o indulgenti, il regista; sfruttando ogni singola sillaba, ed evidenziandone la carica emotiva attraverso l'inserimento di materiale fotografico di archivio, e filmati d'epoca, White prende per mano lo spettatore e lo conduce con passo svelto (forse troppo a volte) tra i meandri di una selva giudiziaria dove alla condanna equa, si preferisce la violenza di genere.
La decisione di ancorarsi ai propri personaggi, seguendoli come ombre nella notte, permette inoltre al regista di spingere la propria opera ai confini del reality-show; in questo modo i fatti trattati sembrano avvalersi di un ulteriore senso di realtà, fino a prendere vita una seconda volta nel momento della visione. Ciò permette allo spettatore di ritrovarsi travolto dall'onda di violenza e ingiustizia che inghiotta le famiglie ascoltate, elevando Brittany a portavoce di donne ignorate da una società sorda e cieca, che promette di proteggere i propri cittadini, per poi lasciarli vagare nell'oscurità della paura di una giustizia non applicata, o un processo inadeguato.
Una giusta durata per una ingiusta causa
Siamo ormai spettatori assuefatti a durate estreme; maratoneti bulimici di visioni infinite, allenati a minutaggi che sfiorano le tre ore cinematografiche, e le decine di ore televisive. È per questo che, quando a farsi largo tra le proposte di visione vi è un titolo come Lo Stato dell'Alabama contro Brittany Smith, che a stento arriva a 50 minuti di running-time, un alito di sospetto ci investe, timorosi della poca valenza, o del limitato interesse, che una storia del genere può suscitare. A posteriori, il documentario si presenta invece come un esperimento sufficientemente riuscito, grazie soprattutto alla sua capacità di sfruttare appieno ogni secondo possibile. Divisa in due parti, l'opera impiega la prima metà per presentare i protagonisti, le loro debolezze, tra rinunce e dipendenze, per poi concentrarsi sulle dinamiche del caso di cronaca che ha visto Brittany macchiarsi del sangue di un'omicida.
Perfettamente equilibrate e incastonate armonicamente le une dalle altre, le due metà di questa mela narrativa soddisfano ogni curiosità spettatoriale, lasciando nel pubblico il sentore che, forse forse, ogni minuto aggiunto, avrebbe allungato un brodo già perfettamente asciutto e pronto a essere consumato. Ciononostante, proprio ai fini della storia, e in vista di una sua più completa immedesimazione spettatoriale, sarebbe risultato interessante addentrarsi maggiormente nella sfera privata di Brittany, circa il suo rapporto sia con il fratello, che con l'uomo a cui la ragazza ha tolto la vita. Le relazioni interpersonali sono rapporti interrotti, legami pericolosi che il regista affronta con rapidità e un tocco di superficialità, ma che forse meritavano il giusto approfondimento, soprattutto data la tragica escalation che questi causeranno nella vita delle famiglie coinvolte.
Nel complesso, il duplice pregio di un documentario come Lo stato dell'Alabama contro Brittany Smith non è solo quello di svestire di ogni facile retorica i fatti affrontati per abbigliarli di oggettività, così da offrire allo spettatore la possibilità di elaborare un proprio giudizio personale circa quanto accaduto; l'opera diretta da White più che giustificare o meno l'atto compiuto dalla protagonista, punta piuttosto sull'ineguaglianza e la mancata obiettività da parte di uno stato come l'Alabama circa il trattamento di un medesimo caso in base al sesso dell'imputato. Una doppia violenza (di genere e sessuale) a cui la stessa Brittany è chiamata a superare e che l'autore non ha paura di sottolineare in un contesto dove la legge della pistola ha ancora la meglio su quella morale, e dove l'appartenere al genere maschile assicura punti facili sulla patente della vita, ottenendo come premio finale degli sconti di pena, mentre le donne arrancano, spingono la propria causa, finendo il più delle volte schiacciate da un peso mai rimosso, o mai compreso.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione de Lo stato dell'Alabama contro Brittany Smith sottolineando come il documentario diretto da Ryan White non si limita a raccontare un caso di omicidio per legittima difesa, ma stila una denuncia in chiave cinematografica della massiccia ingiustizia compiuta dal sistema americano dove se sei maschio, o femmina, la richiesta di amnistia diventa un caso di genere.
Perché ci piace
- La rappresentazione diretta della società in cui vive Brittany.
- La capacità di non condannare, o giustificare, l'atto di Brittany, ma limitarsi al racconto del suo caso.
- Le modalità di riprese, tipiche del documentario, ma con un tocco di reality-show.
Cosa non va
- L'uso un po' troppo indiscreto dell'accompagnamento musicale.
- La mancata analisi del rapporto tra Brittany e il fratello, figura questa fin troppo da parte.