Prima di decidere di cambiare vita e fare l'attore, Liam Cunningham lavorava come elettricista, il successo è arrivato tardi, gli è piombato addosso inaspettato con il ruolo di Ser Davos ne Il trono di spade. Anche se fino a quel momento i grandi maestri non sono mancati: da Ken Loach e Steven Spielberg a Steve McQueen. Oggi dopo la conclusione della saga, Liam Cunningham si prepara ad affrontare il futuro lontano dal personaggio che lo ha definitivamente consacrato presso il grande pubblico, e lo fa ripartendo da The Hot Zone, miniserie in sei episodi sulla scoperta del virus Ebola e sulla sua prima apparizione sul suolo americano alla fine degli anni '80. Lo incontriamo a Benevento al Festival del Cinema e della Televisione dove è stato protagonista di una chiacchierata con il pubblico, che ha assistito alla proiezione delle prime due puntate della serie basata sui fatti reali raccontati nell'omonimo best-seller di Richard Preston.
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L'attore irlandese è un tipo vulcanico, nonostante il recente tweet sui disagi all'aeroporto di Napoli di Liam Cunningham, lui dell'Italia dice di amare tutto: il vino, la moda, le moto e le macchine di cui è grande appassionato. "Mi piace il vostro modo di celebrare la vita, è molto simile a quello di noi irlandesi", commenta. E soprattutto è follemente innamorato di Monica Bellucci: "È come Catherine Deneuve in Francia", con lei ha girato un film sul traffico sessuale in Bosnia ma non si sono mai incontrati, "mi ha spezzato il cuore", scherza. Del cinema italiano conosce poco, ma "sarei un pazzo a dire di no a un film girato in Italia, trovatemi un regista e verrò: basta che non mi faccia recitare in italiano!". In The Hot Zone, in onda su National Geographic da settembre, interpreta il dottor Dottor Wade Carter, mentore della dottoressa Nancy Jaax (Julianne Margulis), un eroe silenzioso che ha trascorso la propria vita andando a caccia di virus, un personaggio che per molti versi ricorda quello di Ser Davos: "Mi piace giocare da outsider e dare voce e corpo a chi non viene ascoltato", rivela.
Dalla fiction de Il trono di spade al realismo scientifico di The Hot Zone
Cosa racconta The Hot Zone?
È una storia importante che parte da basi scientifiche. Sulla carta potrebbe sembrare noiosa: ci sono dottori, scienziati, ma nella serie l'ebola diventa un mostro, un nemico invisibile. Siamo nel 1989, ma non dimentichiamo che anche oggi ci sono focolai di Ebola che possono arrivare ovunque in qualsiasi momento.
Che peso ha avuto il coinvolgimento di National Geographic nella sua decisione di sposare questo progetto?
National Geographic ha una responsabilità di tipo scientifico. Inoltre trattare questa storia come una fiction ha consentito che arrivasse a molta più gente di quanta ne avrebbe potuto raggiungere se fosse stata affrontata in maniera documentaristica. Un cast di un certo livello è un ulteriore motivo di attrazione. Noi attori abbiamo la responsabilità di rendere godibile una storia complicata e spaventosa come questa.
Come ha vissuto il passaggio dalla fiction de Il trono di spade a una serie ispirata a fatti realmente accaduti?
La differenza sta nella responsabilità: quando racconti una storia vera devi stare più attento e cercare di essere più aderente ai fatti, devi trovare un equilibrio tra intrattenimento e accuratezza fattuale. La serialità ormai ha raggiunto i livelli del grande cinema. Che idea si è fatto? Sono due modelli di business molto diversi e Hollywood è diventata vittima del proprio successo. I grandi film hanno costi spaventosi e devono essere necessariamente di grande successo per recuperare in tempi molto brevi i soldi investiti, è la legge del "too big to fail", "troppo grande per fallire". Recentemente si replicano sempre gli stessi modelli e si è innescato il sistema dei remake. La tv invece negli ultimi anni ha scommesso su autori di talento permettendogli di lavorare liberamente; la televisione ha riempito il vuoto lasciato da film facili, per un pubblico di cassetta, ai quali molti bravi attori non avevano più intenzione di partecipare preferendogli la tv come luogo di sperimentazione. Il trono di spade ne è l'esempio perfetto: l'autore della saga, George R.R. Martin, aveva giù scritto per la tv ed è un autore versatile in tutti i campi dell'intrattenimento. Rendere la sua scrittura a livello cinematografico sarebbe stato complicato, diversi Studios gli avevano proposto di farne un film, ma poi arrivarono David Benioff e D.B. Weiss con l'idea di una serie che avrebbe potuto dipanare meglio l'enorme massa di contenuto della saga. Ironicamente una delle più grandi serie tv degli ultimi anni è nata dalle difficoltà produttive che avrebbe comportato un adattamento per il grande schermo. Solo la strada della lunga serialità ha permesso che si potesse realizzare.
The Hot Zone come molte serie degli ultimi tempi, The Dark, Chernobyl o Stranger Things, raccontano gli anni '80 e gli spettri di quell'epoca: la paura del nucleare, degli alieni, della contaminazione. È forse un modo per raccontare le nuove paure del nostro tempo?
Drammi come Chernobyl riportano alla luce la consapevolezza che una cosa spaventosa come questa è successa e potrebbe succedere di nuovo. Chissà forse tra quarant'anni faremo delle storie horror su Trump!
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Ha girato con registi come Ken Loach e Steven Spielberg, le dà fastidio essere identificato oggi con Il trono di spade?
Assolutamente no, mi fa piacere. Ogni genere mi muove differenti muscoli cerebrali. Ken Loach è uno dei motivi per cui ho iniziato a fare questo mestiere, lavorare con lui in un film che raccontava una storia importante del mio paese è stato un onore, un'esperienza che mi porterò nella tomba. Anche con Steve McQueen è stato eccezionale, era il suo primo film ed è stato come lavorare con un bambino, innocente e aperto a ogni tipo di esperienza, imparava facendo. E sono fierissimo di aver lavorato nel primo film hollywoodiano di Alfonso Cuarón, adoro lavorare con persone che non sono ancora corrotte dal sistema. Se una storia è buona lo è a prescindere dal tema.
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L'Africa e l'impegno umanitario
Negli anni '80 ha vissuto in Zimbabwe, The Hot Zone è in parte ambientata in Africa. Quanto le è servita quell'esperienza per prepararsi alla serie?
The Hot Zone mi ha riportato indietro nel tempo, mi ha fatto sorridere che Waith Carter vada in giro sulla sua Land Rover a caccia di virus, mentre io andavo in giro per lo fattorie dello Zimbabwe a fare l'elettricista. È stato stranissimo.
È stato in alcuni campi profughi in Uganda insieme all'organizzazione umanitaria World Vision. Che ruolo hanno il cinema e la tv in questo campo?
Una delle conseguenze della celebrità è che la gente ti sta a sentire, quindi a volte puoi sfruttare la tua fama per una buona causa. Sento una grande responsabilità e sono molto sensibile su alcuni temi, mi colpisce ad esempio che durante la seconda guerra mondiale centomila rifugiati polacchi trovarono asilo in Siria, mentre oggi ci ritroviamo con un'Europa che non vuole i siriani. Se perdi la tua capacità di compassione perdi la tua umanità.