Recensione Per non dimenticarti (2006)

Un insieme di lacrimevoli microstorie da romanzetti rosa, racconti posticci di speranza, disillusione e piccoli e grandi soprusi, tutti spacciati per prodotti di una guerra che si è lasciata dietro una lunga scia di miseria e sogni infranti.

Le dimenticabili donne del '47

Un'opera tutta al femminile, a differenza di quanto avviene nella fiction televisiva, nel cinema italiano è cosa assai rara. In Per non dimenticarti, film di casa Avati (ma questa volta il Pupi nazionale si limita ad essere padre d'arte, precisamente di Mariantonia e Tommaso, rispettivamente qui regista e sceneggiatore), di donne che si confrontano e si raccontano ce ne sono ben nove, tutte con un minuscolo essere in pancia, ora desiderato, ora capitato per caso, ora un dono superfluo da cancellare in anticamera. Sono donne che vivono gli anni difficili del secondo dopoguerra, che si preparano alla maternità, e ai problemi che essa comporta, in un reparto di ostetricia della Roma del 1947, in cui ci si guarda con un po' di sospetto, ma, oltre la cautela dei primi sguardi, anche con grande tenerezza e sincera solidarietà.

Girato quasi totalmente in interni e realizzato con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività culturali che lo ha riconosciuto di interesse nazionale, Per non dimenticarti è un insieme di lacrimevoli microstorie da romanzetti rosa, costituite unicamente da dialoghi pericolosamente vicini alle chiacchiere da salotto televisivo della tv del dolore, racconti posticci di speranza, disillusione e piccoli e grandi soprusi, tutti spacciati per prodotti di una guerra che si è lasciata dietro una lunga scia di miseria e sogni infranti che ha mutilato anche il sogno della maternità. Tutto il film vibra di un tedioso spirito cattolico, incarnato soprattutto dal personaggio di Nina (interpretato da una spaesata Anita Caprioli), tutta santi e buone parole al momento giusto, caratterizzata da un'apertura incondizionata verso il prossimo che scivola nel buonismo più snervante, sempre pronta ad ascoltare le confessioni altrui, senza mai incappare nella frase sbagliata, in un tono di voce più alto. E con questo stesso spirito accoglierà il dramma più atroce che la vita può riservare ad una donna, mentre gli immancabili miracoli saranno riservati a qualcun altro, come una strana beffa del destino.

Tra le note stonate del film, decisamente discutibile risulta la scelta di risolvere la delicata tematica dell'aborto in una sua definitiva condanna: la donna che, come una criminale sceglierà di fare uccidere suo figlio di notte, senza guardare in faccia nessuno, è rappresentata infatti come una persona fisicamente brutta, coperta di lividi (per aver già tentato, da sola, di perdere quel bambino non voluto), l'unica a non accettare alcun tipo di contatto e di conforto dall'onnipresente Nina e suo buon cuore al seguito. C'è poca luce in questo film e anche la neve che cade su Roma salta subito all'occhio come inautentica e non sa destare meraviglia. La Avati dirige secondo le logiche di una grammatica demodè, privilegiando i primi piani tanto cari alla televisione, rimanendo impantanata tragicamente nell'abuso di un campo-controcampo francamente asfissiante, mentre dietro ogni fotogramma ingiallito si mendica subdolamente una lacrima che forse si farebbe meglio a tenere dentro.