Ognuno ha il suo peso da portare, ma... tu sei come un'esploratrice, sei già in fondo alla strada, sei già andata avanti; quindi se a un certo punto non vai oltre, allora saprò che la strada è troppo lunga e faticosa.
Nell'impervio percorso chiamato infelicità, una prospettiva adottata non troppo di frequente è quella dello sguardo filiale: i genitori, che per ciascuno di noi hanno costituito il modello privilegiato di una futura vita adulta, possono offrirci anche un primo assaggio delle asprezze e delle delusioni con cui sono costretti a cimentarsi in anticipo sui propri figli. Un aspetto che avremo modo di approfondire all'interno della nostra recensione de Le cose che non ti ho detto (disponibile in video on demand), seconda prova da regista dello scrittore inglese William Nicholson, con Annette Bening e Bill Nighy nei panni di una coppia che, dopo quasi trent'anni di matrimonio, si disintegra all'improvviso sotto gli occhi del figlio Jamie, testimone inerme del dolore di sua madre Grace.
Annette Bening, Bill Nighy e la "ritirata da Mosca"
Penna decisamente prolifica, William Nicholson è l'autore di una quindicina di romanzi (fra cui due trilogie fantasy), un precedente lungometraggio da regista (Firelight, del 1997) e una dozzina di sceneggiature per il cinema, incluso lo script de Il gladiatore di Ridley Scott. Per il teatro, invece, il settantaduenne Nicholson ha realizzato Shadowland, da lui stesso adattato per lo schermo nel 1993 (Viaggio in Inghilterra di Richard Attenborough), e The Retreat from Moscow, pièce datata 1999 che proprio Nicholson, a distanza di ben vent'anni, ha portato al cinema come Hope Gap, in italiano Le cose che non ti ho detto. A motivare il bizzarro titolo della fonte teatrale è la celebre vicenda storica a cui fa riferimento Edward, il docente interpretato da Bill Nighy, nel corso di una delle sue lezioni: la ritirata dell'esercito napoleonico nel fatale inverno russo fra il 1812 e il 1813.
Lo strenuo tentativo dei soldati francesi di scampare alla morte, a costo di depredare degli abiti i cadaveri dei loro commilitoni, si pone infatti come la macabra allegoria per definire un altro tipo di abbandono. Il corpo lasciato nella neve è un rapporto privato della linfa vitale dei sentimenti, e condannato pertanto a una morte certa; agli altri non resta che salvarsi, proseguendo il cammino. È la scelta di Edward, la cui fredda compostezza britannica è il baluardo contro cui si infrangono tutti i tentativi di sua moglie Grace di resuscitare un impulso emotivo, una scintilla di romanticismo. E se Edward è affidato alla maschera semi-imperturbabile di Bill Nighy, Grace al contrario è pervasa dall'intensità, dal vitalismo appassionato, a tratti perfino dalla rabbia tagliente di Annette Bening, sulle cui spalle - o meglio, su quel volto che suggerisce un infinito ventaglio di sfumature - si regge in pratica l'intera pellicola.
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Tutto su mia madre
Dall'affettuoso flashback dell'incipit, su quella spiaggetta rocciosa alle pendici della scogliera, Grace rimarrà il centro costante dell'attenzione del Jamie di Josh O'Connor, alter ego di William Nicholson (il film, come il dramma teatrale, ha una dichiarata matrice autobiografica). Così come il cuore dell'opera è rintracciabile nell'interrogativo sulla felicità, e soprattutto sull'infelicità, di una madre alle prese con l'elaborazione del lutto per un matrimonio ridotto in cenere. Dopo la separazione del primo atto, quando un serafico Edward annuncia la sua decisione di lasciare la moglie e di trasferirsi a casa della nuova campagna, Le cose che non ti ho detto diventa la cronaca del faccia a faccia tra madre e figlio: due anime per certi versi affini, entrambe impegnate a districarsi fra le spinose maglie dell'inquietudine.
Alla relativa 'staticità' connaturata all'origine teatrale del film fanno da contraltare, pertanto, gli scambi fra Grace e Jamie: un progressivo avvicinamento che culminerà in un emozionante dialogo sulla prospettiva del suicidio. Perché se Grace, grande cultrice della poesia, trova nei versi uno strumento salvifico contro la depressione e la solitudine, per Jamie quello strumento è rappresentato proprio dalla madre e dal suo esempio: "saprò che per quanto difficile posso tenere duro, perché tu l'hai fatto prima di me". È la chiave di volta di una pellicola dall'andamento lineare e senza scosse, di impianto tradizionale ma non per questo accademico, che nell'esplorare il binomio fra amore e sofferenza può richiamare alla mente il già citato Viaggio in Inghilterra: lì si parlava del rapporto fra C.S. Lewis e Joy Davidman, mentre in questo caso l'elemento autobiografico colora il racconto con tinte di dolorosa autenticità.
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Conclusioni
Certo, alcuni momenti di ‘raccordo’ della trama – le confidenze fra Jamie e i suoi amici, l’esperienza di Grace come volontaria per una friendline – risultano poco più che deboli riempitivi; ma nel concludere questa recensione de Le cose che non ti ho detto, a prevalere sono senz’altro i pregi di un film introspettivo, sommesso, di un realismo che rifugge le facili scorciatoie o le catarsi forzate (l’ultimo confronto fra i due ex coniugi è un addio pacato, quasi spento). E capace di trovare una mirabile interprete (ma non è affatto una sorpresa) in una magnifica Annette Bening, che dopo Le donne della mia vita e Le stelle non si spengono a Liverpool aggiunge un’altra toccante performance alla sua galleria di personaggi divisi fra sentimento, rimpianto e malinconia.
Perché ci piace
- La sincerità di una scrittura in grado di delineare personaggi e situazioni in maniera accurata e credibile.
- L’eccellente prova d’attrice di una Annette Bening protagonista assoluta, ma che trova nel giovane Josh O’Connor un valido comprimario.
- Una manciata di scene e di dialoghi che, nella loro apparente semplicità, ottengono un perfetto equilibrio fra realismo ed emozione.
Cosa non va
- Lo scarso sviluppo narrativo del personaggio di Jamie, confinato nella posizione di testimone e ‘commentatore’ delle vicende dei genitori.