Il lavoro dell'attore? Una questione profondamente umana. Non ha dubbi Giuseppe Fiorello, alle prese con il set de L'afide e la formica, opera prima di Mario Vitale prodotta da Indaco Film. "In un personaggio ci deve sempre essere una parte di me, anche quando si tratta di interpretare un assassino; mi chiedo spesso: 'Cosa avrei fatto al suo posto?'. Ogni uomo ha dentro di sé un dio e un assassino, diceva Hitchcock". Ed è andata così anche questa volta. Quando lo raggiungiamo mancano poche ore al prossimo ciak e solo una settimana alla fine delle riprese che si sono svolte interamente in Calabria a Lamezia Terme, città natale del regista. Fiorello interpreta Michele, un professore di educazione fisica, ex maratoneta, che decide di allenare Fatima, adolescente calabrese nata da genitori marocchini, per farle vincere la maratona del paese. Una storia di sport e integrazione in un Sud non necessariamente legato a storie criminali. "C'è la voglia di lasciarsi dietro un passato complicato e oscuro, in una terra attanagliata da qualcosa che per anni ha operato nell'ombra. - ci spiega - La Calabria che ho trovato qui è quella piena di un fermento cinematografico importante: il cinema illumina, porta cultura e lavoro, accende delle luci e ripulisce il sistema". Insieme a lui Alessio Praticò, Valentina Lodovini e Cristina Parku, per la prima volta sullo schermo.
Una sceneggiatura che affascina
Cosa ti ha affascinato di questa opera prima?
Giuseppe Fiorello: Ho letto subito un bellissimo film, una sceneggiatura strutturata bene, con stile e grande personalità. Non è per nulla un'opera prima, io ne sto uscendo con le ossa rotte, fisicamente provato! E quando si torna a casa stanchi e affaticati, pieni di roba sulle spalle, vuol dire che tra noi e la storia è successo qualcosa di importante . Il lockdown ha cambiato le regole del gioco nel mestiere dell'attore, quando è arrivato ero in totale confusione artistica e personale, ma non mi ha mai disorientato, anzi mi ha tirato dentro a un vortice che girava così velocemente da vedere solo un punto fermo.
Alla fine ho avvertito il bisogno di modificare alcune regole della mia vita artistica e di frequentare persone nuove che mi portassero in un territorio che per vari motivi ho praticato poco, ovvero il cinema. Così ho incontrato Consuelo (l'agente, n.d.r.) e questo film è la prima cosa successa tra me e lei, un'opera prima che ha un grande peso cinematografico, un racconto importante, corposo, emozionante, a tratti popolare, a volte stiloso. Oggi posso finalmente dire cosa è diventata quella sceneggiatura, ho visto delle immagini che non tradiscono nulla di quello che avevo letto. Mario è un regista sicuro di sé e non ha bisogno di perdere tempo per capire come mettere in scena un'inquadratura, un'emozione, uno sguardo, perchè ha già tutto dentro. Ha la dolcezza dell'esordiente e la determinazione del regista al quarto film.
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Personaggi dal passato irrisolto
Se voleste definire i vostri personaggi con una parola?
Alessio Praticò: Irrisolto. Sono tutti personaggi con dei conflitti e un passato irrisolto, che ritorna all'improvviso con un effetto domino. In particolare Nicola, legato da un'amicizia fraterna al figlio di Michele, si ritrova ad affrontare qualcosa che non è mai riuscito a metabolizzare. Il film ha diverse chiavi di lettura e una di queste è il rapporto padre-figli; sia Fatima che Michele ne hanno uno, seppur strano. Nicola ha invece una mancanza, una figura paterna sostituita da una madre che lo costringe a seguire un percorso non suo, e spesso si chiederà perché non abbia mai potuto scegliere. Mi viene in mente 'Mother' dei Pink Floyd, in Nicola ricorre la domanda: "Perché non posso avere la mia libertà?". Questo film è una tragedia greca, le colpe dei padri ricadono sui figli, predestinati a un percorso che non gli appartiene.
Cristina Parku: Fatima è fuoco. Qualcosa le brucia dentro, come succede a molti adolescenti di quell'età. Fa di tutto per essere ciò che vuole senza che nessuno le dica quello che deve fare, è determinata a cercare la propria strada da sola. È molto simile e nello stesso tempo diversa da me, come lei sono nata e cresciuta in Calabria, mio padre è ghanese, mia madre di Reggio Calabria, mentre lei ha entrambi i genitori marocchini; anche io ho dovuto combattere per realizzare il mio sogno più grande, quello di fare l'attrice.
Giuseppe Fiorello: Michele è come l'ultima fiammella di una candela che sta per spegnersi, ma che può ancora recuperare e riaccendersi grazie a Fatima, l'unica in classe a rispondere al suo invito a partecipare alla maratona del paese. Insieme si riconoscono e si piacciono nonostante l'aspetto burbero di lui e l'essere sfuggente di lei, due entità che si attraggono mettendo su un progetto di vita che è anche metafora della storia del film, perché come dice Michele ai ragazzi "correre è anche scappare".
Un finale indimenticabile
Come si evolve Michele nel corso del film?
Giuseppe Fiorello: Potrebbe diventare fuoco, ma chissà... Il finale della storia è stupendo, coniuga due emozioni distanti tra loro, una chiusura che potrebbe essere una sconfitta e nello stesso tempo un rilancio. È il finale di un cinema di altri tempi, quello che avrei sempre desiderato per un film.
Che scambio c'è stato sul set?
Giuseppe Fiorello: Io e Mario abbiamo avuto sempre uno scambio reciproco. Siamo stati tanto insieme: ci sentivamo durante il lockdown, ci siamo visti subito dopo, prima in Sicilia da me, poi qui e abbiamo parlato molto. Non riesco a fare un film senza che ci sia un mio sguardo sulla storia, chiunque sia il regista. Le ultime cose che propongo sono quelle che riguardano il mio personaggio, mi interessa sopratutto che l'intera storia funzioni alla perfezione, come un orologio. Per questo ho una tecnica di lavoro che viene dal teatro: mettersi subito attorno a un tavolo e discutere molto per non perdere tempo dopo. Puoi permetterti una creatività che sul set non avresti modo di sviluppare, la matassa va districata prima, il set deve essere una passeggiata.