Recensione Venere nera (2010)

Un film perentorio Venere Nera, in cui Kechiche che non fa sconti alla cultura occidentale né usa artifici di tipo scenografico e narrativo per addolcire la pillola e costruisce sullo schermo il dolente viaggio nella psiche e nel corpo di una vera e propria donna oggetto, una donna violata in tutti i modi.

La Venere violata

Il riserbo durante la lavorazione di Venus Noire era stato assoluto, le immagini shockanti erano annunciate, ma il nuovo film del tunisino Abdellatif Kechiche, regista di enorme talento già premiato a Venezia nel 2001 con Tutta colpa di Voltaire e con il bellissimo Cous Cous, è andato molto oltre le aspettative, ha letteralmente raggelato il Lido.
Il conto in sospeso del cineasta con la Francia, suo Paese adottivo, e con lo spietato snobismo dei suoi connazionali acquisiti non è ancora stato saldato. Dopo aver raccontato il sogno infranto di un immigrato tunisino a Parigi e sette anni dopo il declino tragico di una famiglia di immigrati nella spietata comunità marsigliese, Kechiche decide di raccontare una delle pagine più infamanti della Storia di Francia, quella che racconta la vita di Sartjie Baartman, una donna di origini sudafricane, nota come la Venere ottentotta, che dapprima a Londra poi nella Parigi dell'Ottocento, viene costretta dal suo ex-datore di lavoro, ora impresario sfruttatore, ad esporsi come in uno zoo allo sguardo della 'civile' borghesia europea.


Spacciata come artista (in realtà era una cantante, musicista e appassionata di danza) Sartjie veniva mostrata come una sorta di freak per via principalmente del colore della pelle e per la prominenza del suo ventre e del suo sedere, una conformazione fisica che in Europa nessuno aveva mai visto. Offerta in cambio di denaro al pubblico alla stregua di un animale esotico, Sartjie rifiuta volontariamente l'aiuto dell'African Institute di Londra e discolpa il suo 'padrone' durante il processo cui viene sottoposto per maltrattamenti dalle autorità britanniche. Dopo il rifiuto di continuare le esibizioni legata ad una catena il suo 'socio' in affari, che aveva sempre rinnegato lo stato di schiavitù della donna definendola un'artista consapevole e consenziente, la vende ad un suo compare francese, ammaestratore di animali, che la porta a Parigi con l'intento di arricchirsi offrendo uno spettacolo ancor più umiliante, ai limiti del pornografico, nei salotti libertini della città.
Nel marzo del 1815, nonostante le pressioni del suo 'padrone' e quelle di eminenti scienziati, su tutti quelle dell'anatomista Georges Cuvier, Sartjie rifiuta di farsi esaminare i genitali davanti ad un gruppo di studiosi del Museo di Anatomia. Di lì a poco il calo della popolarità, lo scivolamento nella prostituzione e la morte, avvenuta il 29 dicembre a causa della polmonite e di un'infezione venerea. Il corpo di Sartije viene successivamente sezionato, studiato dallo staff di Cuvier e ne viene fatto un calco in gesso che è rimasto esposto nel Museée de l'Homme fino al 1976 per poi essere tristemente relegati in un deposito. Solo nel 2002, dopo una dura battaglia legale tra Sudafrica e Francia iniziata nel 1994, i resti di Sartjie vengono riportati a Città del Capo con solenne ammissione di colpa da parte delle autorità francesi che dopo quasi due secoli riescono a definire l'intera vicenda come un'onta sulla Storia del Paese.

Un film perentorio Venere Nera, in cui Kechiche non fa sconti alla cultura occidentale né usa artifici di tipo scenografico e narrativo per addolcire la pillola e costruisce sullo schermo il dolente viaggio nella psiche e nel corpo di una vera e propria donna oggetto, una donna violata in tutti i modi. Studiata, toccata, umiliata, violentata fisicamente e psicologicamente, trattata come fenomeno da baraccone e poi come oggetto di piacere e desiderio. Non una schiava messa in gabbia e maltrattata contro la sua volontà, perchè quello che distingue Sartjie dalle schiave mille volte raccontate nelle storie sul colonialismo, è la sua tacita approvazione a tutti i soprusi che le venivano inflitti. Questo ovviamente non toglie nulla alla potenza del simbolo che rappresenta oggi per tutta l'Africa: la violenza fisica non è poi così accentuata o disturbante nel film, a colpire con veemenza allo stomaco lo spettatore è la violenza morale che la donna subisce da ogni parte, una violazione dell'anima che la collega, oggi come allora, a tutte le forme di oppressione ancora praticate nel mondo.

Protagonista assoluta dalla prima all'ultima scena Yahima Torrès, l'attrice non professionista scelta dal regista ai tempi delle riprese di Cous Cous e presa dalla strada proprio per mantenere al massimo il livello di naturalezza ed evitare che la troppa esperienza di fronte alla macchina da presa potesse nuocere al personaggio e non restituirle giustizia. E' cinema in senso puro e stretto quello di Kechiche, un cinema che punta sulle immagini nude e crude, anche quando si tratta di mostrare senza filtri il martirio di una donna sottomessa che mai si ribella, una donna misteriosa e impenetrabile che accetta inspiegabilmente il suo destino senza opporsi, come se si rendesse conto di non avere un'alternativa.
Una rappresentazione troppo romanzata ne avrebbe ridotto il fascino e la veridicità e sarebbe stata irrispettosa nei confronti della memoria di una donna che non si è mai mostrata al pubblico senza barriere, perchè quella che si vedeva durante le rappresentazioni non era la vera Sartjie ma la sua caricatura, non era quello che lei voleva dare, ma ciò che il pubblico voleva vedere. Lei era un'artista che mai ha potuto esprimersi liberamente perchè non era quello che ci si aspettava da lei. Ed è questo a nostro avviso il punto focale di tutta l'opera, il vero contatto tra la storia di Sartjie e le paure di Kechiche, perchè la cosa più spaventosa che possa accadere ad un essere umano, e a maggior ragione ad un regista, è conformarsi al modo in cui qualcun altro ci guarda.
Una riflessione sullo sguardo altrui quella di Kechiche, che tocca corde delicate e non può lasciare indifferenti. Un film girato e interpretato magistralmente che lascerà un segno indelebile nella memoria collettiva.

Movieplayer.it

4.0/5