La televisione dei morti viventi
Gli eroi -arroganti, volgari, egoisti- sono dei morti; il prime time è di competenza di una generazione giovane arrivista e senza scrupoli e de-sentimentalizzata; l'integralismo, comunque già incrinato, non può sottrarsi a quel fascino del palcoscenico che è occhiello occidentale ma che è soprattutto endemicamente umano, e quindi assoluto, etimologico; e i capi di stato, apparentemente stupidi, sono inevitabilmente e palesemente stupidi.
American Dreamz, prima e più che essere il nuovo Quinto potere, tenta lo sguardo antropologico su un reale che ormai è esattamente come lo aspettiamo; però infine scarta verso un'epigrafe che è sorprendente nel suo proporsi come lapide, anche in termini letterali. Il che non significa non poter andare avanti: ma la situazione idealistica non è molto diversa da quella messa in campo (di battaglia) da La terra dei morti viventi. Allora si capisce bene quanto la commedia come genere anarchico sia ancora in grado nei casi migliori di sobillare gli animi (lo fa John Waters con A Dirty Shame), più spesso di rendere conto di una malattia. E non è meno importante.
American Dreamz, che forse è più interessante sulla carta, che non è perfetto, che segue un ritmo tutto suo, ondulato, pacato, e che sovente è indeciso su toni e modalità, crede fermamente nel suo assunto: a rischio retorica (come appunto il dramma sull'orrore contagioso della televisione di Lumet, comunque bellissimo), ma sicuro delle proprie idee, peraltro tutte condivisibili. Se la strada per la lucidità socio-contestuale deve partire dalla commedia elementarmente sporcacciona ma del tutto conformistica (American Pie), allora Paul Weitz l'ha indovinata: il precedente In Good Company era più compiuto e riuscito, però assieme a questa marcatura sull'epidermide di un paese (di tutti i paesi?) copre le facce di una medaglia che non ha nulla dell'onorificenza ai caduti. Piuttosto funge da primo premio alla tombola di una parrocchia di morti viventi. Appunto.