"Non sono mai risultato positivo ai farmaci che aumentano le prestazioni". A forza di ripetere una bugia si finisce per scambiarla per una verità. C'è una scena di The Program nella quale Lance Armstrong (Ben Foster) si esercita a ripetere questa frase prima di una conferenza stampa, cambiando toni ed espressioni facciali per trovare il connubio più convincente da dare in pasto ad una platea di giornalisti talmente storditi dalla figura dell'eroe sulle due ruote da non provare a sollevare dubbi sulla sua condotta atletica. Solo una voce fuori dal coro degli elogi e degli applausi, quella del giornalista sportivo del Sunday Times, David Walsh (Chris O'Dowd), sembra immune alla Armstrong-mania che ha contagiato appassionati di ciclismo, sopravvissuti al cancro e addetti ai lavori. E proprio dal suo libro, Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong, il regista Stephen Frears ha trovato l'ispirazione per raccontare la storia della più grande frode sportiva degli ultimi vent'anni.
Escludendo Road To Paris, il documentario prodotto dalla Nike e dedicato alla preparazione atletica del ciclista durante il Tour de France del 2001, The Program è il secondo progetto cinematografico incentrato sullo sportivo e la sua caduta dal podio dei vincenti. Nel 2013 il regista premio Oscar, Alex Gibney, recentemente al centro delle mire di Scientology per il suo documentario dedicato ai lati oscuri che accompagnano il culto fondato da L. Ron Hubbard, ha infatti presentato fuori concorso a Venezia70 The Armstrong Lie. Nato inizialmente come un documentario celebrativo, mirato a raccontare il ritorno agonistico del campione in sella alla sua bici dopi il ritiro ufficiale avvenuto nel 2005, il lavoro si è progressivamente trasformato in altro, una sorta di lente d'ingrandimento sulle menzogne raccontate dal ciclista non solo ad ammiratori, sponsor o giornalisti ma a Gibney stesso che ha goduto di una vicinanza tale al campione da poter immortalare lui stesso con la sua macchina da presa i fermi "no" alle accuse di doping che nascondevano ben altre verità.
Due facce
L'atleta imbattibile o il più grande abbaglio sportivo degli ultimi anni? Un bugiardo patologico o l'eroe romantico del ciclismo? A questo intricato enigma cerca di dare risposta il regista Stephen Fears, recentemente nominato agli Oscar con Philomena, mettendo in scena la doppia natura di quella che ha tutti gli effetti può essere descritta come l'ex rock star del ciclismo che, tra contratti milionari, pubblicità e sponsor, ha goduto per anni di una fama mondiale, puntando i riflettori su uno sport considerato minore oltreoceano. Coprendo un arco narrativo che dal 1993, anno del suo debutto nel Tour de France, arriva fino al 2013 con la famosa intervista rilasciata per la regina del piccolo schermo a stelle e strisce, Oprah Winfrey, nella quale l'ex atleta ammette pubblicamente di aver fatto uso di sostanze dopanti, The Program ricostruisce la carriera sportiva e le sue implicazioni nel privato di Lance Armstrong. Per farlo usa come filo narrativo i dubbi avanzati dal giornalista sportivo del Sunday Times, David Walsh, che nel film rappresenta una sorta di stella polare da seguire per arrivare ad una verità a lungo taciuta, il quale non si capacitava della potenza fisica raggiunta da Armstrong all'indomani della guarigione dell'atleta da un cancro ai testicoli al terzo stadio. Proprio la malattia, dolorosa e aggressiva, e la sua sconfitta seguita da quelle vittorie sensazionali che l'hanno portato per sette volte di fila sul podio più alto ad indossare la maglia gialla, con l'Arco di Trionfo alle sue spalle a fare da silenzioso testimone della grande bugia, è l'elemento costante, ma non invasivo, che accompagna la narrazione. Quelle vittorie, infatti, assumevano agli occhi di appassionati di due ruote, opinione pubblica, malati o reduci della malattia, una valenza ancora più forte. Lance Armstrong era il miracolo sotto i loro occhi, l'eroe sportivo capace di sconfiggere il cancro e tornare più forte di prima sul sellino, pronto a riprendersi con voracità e determinazione tutto quello che la malattia voleva togliergli.
Agli occhi dello spettatore, ai quali Fears mostra la facciata patinata fatta di sorrisi, cene di gala e conferenze stampa trionfanti contrapposta al dietro le quinte, dove le siringhe di EPO, il farmaco sperimentale che apportava maggior ossigeno al sangue dell'atleta, si uniscono alle minacce ai "dissidenti" e al senso di onnipotenza di Armstrong, la figura dell'eroe romantico si sgretola, lasciando emozioni contrastanti. Sì, perché, tra un'iniezione e una menzogna, il regista ci mostra anche l'uomo sempre più schiacciato da quel castello di bugie che lui stesso aveva eretto con l'aiuto del medico italiano, Michele Ferrari (Guillaume Canet), suo preparatore atletico, e dell'agente Bill Stapleton (Lee Pace), filmando il senso di disagio soffocante sul quale poggiava la sua vita. Una sorta di due facce, il campione sorridente e l'uomo in costante allerta, l'eroe e il bugiardo. Una personalità complessa e ossessionata dalla vittoria che l'ha portato a diventare la punta di diamante della più grande truffa sportiva della storia, grazie al "programma", un rigido schema fatto di siringhe di EPO e trasfusioni di sangue che si univano a minacce verbali e querele ogni qual volta una voce fuori dal coro provava ad ostacolarlo nella strada verso il traguardo.
Il grande abbaglio
Tutto il clamore suscitato da Lance Armstrong, l'abbiamo detto, si basa un'enorme abbaglio nel quale quasi tutti sono scivolati, forse anche un po' volontariamente perché l'idea della rinascita e dalla successiva affermazione fisica di un ex malato di cancro è la bugia che tutti vorremmo sentire, il miracolo a cui tutti vorremmo assistere. Stephen Frears costruisce un film che non mira a distruggere l'icona dello sport ma cerca di mostrarne le sfaccettature fatte di abissali differenze, dall'arroganza alla volontà di far nascere la Livestrong, l'organizzazione benefica per la lotta contro il cancro. Tutto il film sembra muoversi tra un equilibrio costante tra il bene e il male, senza che sia il regista a far pendere l'ago per una o l'altra parte, lasciando allo spettatore il compito di trarre le sue conclusioni. Dall'impianto narrativo asciutto, la pellicola si concentra sul "programma" e le sue conseguenze, lasciando che ogni altro elemento graviti intorno alla vicenda principale, mostrando parallelamente le ricerche di Walsh per far venire a galla la verità. L'intero film è molto giocato sui primi piani di tutti i protagonisti, con la fotografia di Danny Cohen che rende i colori intensi ma che allo spesso tempo li vela rendendoli sabbiosi, ai quali il regista contrappone inquadrature di dettagli o campi lunghi delle corse ciclistiche riprodotte con cura ed originalità visiva.
Nonostante le ottime interpretazioni dell'intero cast, con una menzione speciale per Ben Foster capace di giocare sia sul livello fisico che psicologico con convinzione, alcuni elementi di The Program sembrano stridere con la riuscita totale del film. Le sequenze delle gare, se da un lato attirano per la regia di Frears capace di mostrare la fatica e le tattiche sportive unite all'atmosfera da competizione, dall'altro vengono "vivacizzate" da una scelta musicale di brani non originali che sembra stridere con lo spirito del film e che rimane appoggiata all'immagine, senza fondersi con essa. Inoltre, se il lavoro di Alex Gibney era molto attento a mostrare e spiegare allo spettatore ogni singolo passaggio ed il ruolo di ogni personaggio, data proprio quella sua natura di documentario, in The Program alcuni snodi narrativi sono troppo sbrigativi e rischiano di far momentaneamente disorientare lo spettatore, specie se s'imbatte per la prima volta con la vera storia di Lance Armstrong o se non conosce a sufficienza il mondo del ciclismo.
Movieplayer.it
3.0/5