Il noir, più che un genere, è sempre stato principalmente un'atmosfera, un modo di narrare, un approccio ai personaggi e un'attitudine verso la storia. Non a caso, storicamente (nel cinema e non solo) il termine ha accomunato opere diversissime, che hanno fatto parte di filoni distinti ed esteticamente molto lontani tra loro. E' in particolare al neo-noir, e in special modo a quello dei fratelli Coen e dei loro epigoni (dagli anni '80 in poi) che sembra guardare questo Motel, esordio alla regia dello statunitense David Grovic (già attore e produttore).
Nell'intreccio del film, e nella messa in scena, si trovano in effetti riferimenti a vari esempi di pellicole che hanno rappresentato il "nero" cinematografico negli ultimi decenni: dai Coen di Blood Simple - Sangue facile, nella galleria di personaggi spesso grotteschi che animano la storia, al Sam Raimi di Soldi sporchi (forse tra gli esempi più alti del filone in questione), passando per la centrifuga tarantiniana, confronto obbligato, da vent'anni a questa parte, per chiunque voglia approcciare questo tipo di storie, e persino per alcune suggestioni à la David Lynch (l'ambientazione, la presenza di un topos come quello del nano). Persino un riferimento a Psycho, in un finale che ovviamente non anticipiamo, fa capolino nel film di Grovic. Il regista, da par suo, ha dichiarato di essersi ispirato, per questo suo esordio, principalmente alla tragedia greca, e alle sue tre unità (spazio, tempo e azione). Eppure, prima ancora di Aristotele, è molto del cinema dei decenni passati che viene in mente guardando questo Motel.
Una trappola nel nulla
L'unità di spazio, e la concentrazione dei personaggi in un unico luogo (visto quasi come una prigione senza sbarre, in cui tutti sono costretti, per motivi diversi, a restare inchiodati) è effettivamente tra gli elementi più interessanti del film. Il senso di ineluttabilità che accompagna la storia, il sentore di sconfitta che accomuna i personaggi (anch'esso caratteristico del genere) è un elemento che viene colto fin dalle prime battute, da quando il personaggio di John Cusack, dopo essere sopravvissuto a un'aggressione armata, si avvia verso il luogo in cui dovrà avvenire la misteriosa consegna ordinata dal suo capo (un Robert De Niro che non sembra rinnegare la fascinazione per questa tipologia di caratteri).
Il motel come trappola, quindi, metafora (anche troppo scoperta) dell'esistenza in cui ognuno dei personaggi è rimasto, suo malgrado, intrappolato. La sceneggiatura, tratta da un racconto di Marie-Louise Von Franz, tenta tuttavia di virare al grottesco l'afflato tragico che un intreccio come questo potrebbe suggerire: memore, in questo, della lezione dei Coen, e della loro rielaborazione postmoderna del genere. I "tipi" che ogni personaggio rappresenta sono enfatizzati e (spesso) caricaturizzati, le loro interazioni sovente improntate al parossismo, la tensione spezzata in dialoghi e battute che vorrebbero indurre un effetto di straniamento. Scorre sangue, nel film, ma spesso se ne sorride, prima e dopo che ciò accada. O, almeno, questo è l'effetto ricercato.
La consapevolezza e lo sguardo
Tuttavia, il livello di consapevolezza della scrittura, e la poca capacità del regista di giocare con atmosfere e personaggi, rendono perdente in partenza il tentativo di introdurre il germe del grottesco nella struttura della trama: la galleria di caratteri presentata (a cominciare da un Crispin Glover sprecato, in un ruolo di rara inconsistenza) induce tutt'al più a qualche fugace sorriso. Le trasformazioni della dark lady di Rebecca Da Costa (la "gatta" che dà il titolo al racconto) non sono mai meno che prevedibili, mentre De Niro gigioneggia con un certo gusto, ma non graffia. Il grottesco che emerge, a tratti, nei dialoghi, non è mai giustificato da un mood che attraversi il film con continuità, mentre varie incongruenze e buchi di script emergono qua e là nella narrazione (fino a un finale difficilmente comprensibile e giustificabile).
Va comunque detto che, dal punto di vista visivo, Motel può vantare qualche freccia al suo arco. La regia valorizza sufficientemente bene le peculiarità (e la concentrazione in pochi luoghi) dell'ambientazione, mentre le luci al neon, e la saturazione cromatica della fotografia, trasmettono con pregnanza il clima sordido e di costante pericolo che permea la storia. Il motel, isola/trappola atta ad accogliere anime perdute, figlie di un secolo (e oltre) di tradizione cinematografica e letteraria, fa bene la sua parte: è la descrizione di queste anime a lasciare perplessi, in uno script che non va mai oltre il guizzo estemporaneo, l'ammiccamento ad altre pellicole, la battuta che punta (in modo fin troppo scoperto) a un'aura da cult. La risoluzione della vicenda, come accennato in precedenza, rende davvero ardua la sospensione dell'incredulità, già messa a dura prova in vari passaggi del film.
Non ce la sentiamo, comunque, di bocciare del tutto il David Grovic regista, qui penalizzato da uno script obiettivamente deficitario: qualcosa, nel suo sguardo, rivela comunque un gusto cinefilo che potrebbe riservare qualche sorpresa in futuro. Lo aspettiamo con sceneggiature, auspicabilmente, di fattura migliore.
Movieplayer.it
2.0/5