La ragazza di neve, la recensione: la narrazione di una scomparsa

La recensione di La ragazza di neve, serie tratta dal best-seller di Javier Castillo disponibile su Netflix dove la scomparsa di una bambina si fa crocevia di dolori e traumi personali.

La ragazza di neve, la recensione: la narrazione di una scomparsa

Pioggia forte, palloncini rossi e un impermeabile giallo. Non è IT, ma il dolore della scomparsa improvvisa di un bambino è il medesimo; un dolore ancor più forte, spiazzante, se inserito nella possibile contemporaneità di una città che vive, corre: una città come Malaga, in una realtà come la nostra.
Come sottolineeremo in questa recensione de La ragazza di neve, la serie spagnola firmata Netflix prende vita dall'inchiostro della pagina, quella di Javier Castillo e della sua omonima opera letteraria, per poi vestire il proprio corpo di quella stessa rete di sospetti e ansie che i casi di cronaca nera investono il nostro quotidiano. La scomparsa di Amaya durante la Sfilata dei Re Magi nel centro di Malaga non differisce molto da quella di altri cento, mille e più bambini spariti per non fare più ritorno. Ed è puntando proprio su quella rete di angoscia e speranza che si sviluppa la serie creata da Jesús Mesas e Javier Andrés Roig, capace di attirare e catturare l'attenzione del proprio spettatore, nonostante i continui input traditi, e le tante sottotrame incomplete, o interrotte.

La ragazza di neve: la trama

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La ragazza di neve: una scena della serie

Malaga, 2010: tra le vie della città prende vita la sfilata dei Re Magi. Ma quello che si presenta come il momento più magico dell'anno si trasforma per la famiglia Martín in un incubo senza epilogo quando la figlia Amaya scompare tra la folla. L'apprendista giornalista Miren avvia un'indagine parallela a quella dell'ispettore Millán, risvegliando aspetti del proprio passato che avrebbe voluto dimenticare. Testarda, nonostante gli anni che passano, la giovane non si arrende tentando di dare risposta a un'unica domanda: dov'è Amaya Martín?

Parole su pagine in corpi scomparsi

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Locandina di La ragazza di neve

Tradurre in linguaggio visivo un successo letterario non deve essere un'operazione tanto semplice. Tanto deve essere tagliato e molto sacrificato sull'altare della durata e della restituzione dinamica di emozioni prima imprigionate tra lo scorrere delle pagine. Approfittando della destinazione seriale, le sei puntate che compongono La ragazza di neve permettono che molto venga detto, e poco tralasciato, rispetto alla sua fonte letteraria. Ciononostante, se da una parte la serie diretta da David Ulloa e Laura Alvea riesce a coinvolgere e farsi apprezzare anche da chi non si è mai approcciato al testo di partenza, dall'altra sente la pressione di dover narrare tutto, con il rischio di dimenticarsi di chiudere molti cerchi, e lasciare che troppe linee narrative vaghino a vuoto. E in La ragazza di neve molti subplot non vengono conclusi; sono lame con le quali squarciare nuove aperture e permettere ai propri personaggi di percorrere diversi percorsi, per poi rimanere lì sospese, bloccate nell'attimo di un'azione che non avrà mai fine.

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La ragazza di neve: un momento della serie

Si pensi ai ricordi traumatici di Miren, piccole braci atte a incendiare una mente traumatizzata per poi illuminare un inedito - e pericoloso - sentiero investigativo; ma quelle violenze subite, quelle lacrime disperse, sembrano destinate a rimanere bloccate in eterno in un'istantanea del passato, senza nomi da incolpare, o epiloghi da scrivere. Giocando su diversi piani, La ragazza di neve si fa torta multistrato da un sapore dolce, ma poco avvolgente. Un gusto fresco, a tratti inebriante, che però non riesce a sconvolgere le pupille gustative dei propri spettatori perché poco equilibrato nel dosaggio degli ingredienti, lasciando che molti sovrastino, mentre altri si annullino.

Un quadrilatero femminile tra dolore e testardaggine

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La ragazza di neve: una scena

Sono pedine di un gioco a tratti più grande di loro, i personaggi de La ragazza di neve. Sono uomini e donne lasciati liberi di muoversi in piena solitudine, unici e soli nelle loro ricerche o nei loro isolamenti. A farsi vertici di questo quadrilatero di chi cerca e nasconde, indaga e scrive, sono soprattutto quattro donne, così diverse tra loro, eppure così simili nei loro passati angosciosi. C'è la giornalista Miren, che per esorcizzare il trauma dell'abuso subito si pone per dieci anni alla ricerca della piccola Amaya; c'è la madre della piccola, colonna portante di quel nucleo famigliare da cui tutto prende vita; c'è la detective Belén Millán, dalla vita personale nebulosa, mai indagata, ma tratteggiata da un senso di dolore; e infine c'è la piccola Amaya, fantasma che aleggia nel corso di quattro puntate per poi comparire in carne e ossa e ribaltare una narrazione a forte rischio di sautrazione. Ognuna di queste donne si mostra come colonna portante di un tempio fatto di speranza, testardaggine e determinazione, a volte impantanata da un racconto non sempre fluido, ma comunque rappresentante le diverse sfumature dell'essere femminile, tra maternità rubate e forzatamente ottenuta, dolori e giustizia.

Primi piani di sottratta sofferenza

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La ragazza di neve: una foto di scena

Accettando i dettami interpretativi previsti da un genere come quello poliziesco, ogni attore de_ La ragazza di neve_ si sveste di quel campionario espressivo e gestuale fortemente marcato che caratterizza le performance nelle produzioni spagnole. Ogni mimica facciale è tenuta sotto controllo, lasciando che siano poche, giustificate, reazioni, a squarciare lo schermo, tra urla e pianti. Chi si veste di totale apatia, puntando su un'interpretazione totalmente in sottrazione, è soprattutto Milena Smit (già vista nel Madres paralelas di Pedro Almodovar) nei panni della giovane reporter Mires Rojo. Una scelta ponderata, basata sugli eventi che hanno intaccato il processo di cresciuta della ragazza, ma che portano la sua interprete a una performance alquanto piatta, poco coinvolgente e per questo respingente dal punto di vista dell'immedesimazione spettatoriale.

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La ragazza di neve: un'immagine della serie

Una lacuna, questa, narrativamente giustificata, ma emotivamente deludente, ed evidenziata da una regia votata al predominio di primi piani. Quella messa in atto da David Ulloa e Laura Alvea è infatti una scelta formale che ben si adatta all'esigenza di restituire un'indagine che tenta di entrare nella mente degli altri, con slanci anche cervellotici, al fine di trovare una risposta in un mondo dove risiedono solo domande, e indizi in un universo dove tutto è sbiadito. Ma La ragazza di neve è anche un viaggio verso un passato doloroso, un attimo rimosso, una ricerca silenziosa che tenta di inserirsi tra gli inframezzi di una mente che elabora, pensa, mentre cerca di rimuovere parti di un ieri che si ostina a farsi ombra nel cielo dell'oggi.

Non sarà la serie thriller-poliziesca dell'anno, ma La ragazza di neve vanta comunque un posto di onore tra le offerte proposte in campo spagnolo. Un universo dai colori desaturati, ombrosi, che aderiscono al sottosuolo contemporaneo, tra denunce e report giornalistici, scomparse e ritrovamenti, tutti caratterizzati da un interesse mediatico per casi criminali totalmente in sospeso, come sospeso è il filo della vita per bambini perduti in un'Isola che non c'è abbigliata di incubi, memorie soppresse e ricordi falsati.

Conclusioni

Concludiamo questa recensione de La ragazza di neve sottolineando come la serie televisiva firmata Netflix e ispirata all'omonimo romanzo di Javier Castillo, pur coinvolgendo e innestando un senso di suspense nel proprio spettatore, si dimentica ogni tanto di donare un epilogo a certe sottotrame, mettendo a rischio il totale appagamento dell'opera. Ne risulta una torta multistrato ma poco bilanciata nel dosaggio dei propri ingredienti.

Movieplayer.it
3.0/5

Perché ci piace

  • La mancanza di espressioni e gestualità marcate.
  • La fotografia desaturata.
  • Il senso di angoscia restituita soprattutto nell'ultima puntata.
  • La regia giocata su primi piani.

Cosa non va

  • Il desiderio di raccontare tutto, per poi lasciare incompiuta alcune sottotrame.
  • La performance fin troppo apatica di Milena Smit.