La poesia dell'anti-narrazione
Salta agli occhi un evidente paradosso nel rivedere, oggi, Germania anno zero, settimo lungometraggio di Roberto Rossellini, girato nell'estate del 1947 a Berlino, ultimo atto di quella trilogìa della guerra che comprende, anche, i più rinomati Roma, città aperta, del 1945, e Paisà, del 1946. Il paradosso sta nella sensibile fisicità con cui la macchina da presa si dà a vedere. Nel raccontare la triste vicenda di Edmund - bambino alla soglia dell'adolescenza che vive da sfollato nella Berlino postbellica distrutta dai bombardamenti e che sceglie di uccidersi dopo aver avvelenato il padre malato, gesto cui è stato spinto dalla disperazione etica d'una società che gli ha suggerito il principio per cui i deboli e gli inetti a produrre debbono essere eliminati -, la macchina da presa si muove e inquadra in obbedienza al vincolo di restare incollata ai personaggi, di seguirli passo passo, nei loro percorsi fisici concreti attraverso le strade colme di macerie d'una città sventrata dalla guerra. Così facendo, la macchina da presa dichiara la sua presenza di occhio che osserva il cuore caldo della realtà in movimento. Nello specifico di questo film, l'occhio meccanico dà forma ad una macrocifra stilistica che si identifica nella figura inesausta di un carrello in avanti altezza uomo che si muove per linee orizzontali, proprio a seguire l'orizzontalità d'ogni percorso umano dentro la città che, ormai, è distesa di polvere, accozzaglia di frammenti e palazzi ripiegati al livello della carreggiata dall'offesa delle bombe. Nell'ostentazione di sé come segno di stile è il paradosso della macchina rosselliniana: perché il neorealismo, temperie culturale cui sono ascritte tutte le opere immediatamente postbelliche dell'autore romano, predicava - come ogni altro realismo del passato, anche non cinematografico: si pensi alle teoriche letterarie veriste -, l'oggettività del racconto, la realtà che diventa tout court narrazione e, in questo suo dover essere, rende non visibili il soggetto che racconta e i mezzi di produzione del racconto. Si pensava, allora, che il cinema neorealista dovesse riprendere la realtà semplicemente per come essa si presentava, senza l'intervento di interpretazioni soggettive ma anche - se non soprattutto - senza l'esibizione di alcuna modalità stilistica. Ebbene, come vedremo, Germania anno zero asseconda in tutto e per tutto l'idea che il cinema debba dar voce diretta all'emergenza vitale della realtà (anzi, porterà il procedimento al massimo dei suoi esiti) ma, nello stesso tempo (come abbiamo detto: in evidente paradosso), non persegue il principio dell'occultamento della scrittura intesa come mezzo di produzione artistica ma, anzi, esibendo uno stile specifico di ripresa, espone, senza diaframmi, il proprio metodo di scrittura, ponendosi, così, come film liminale che, da una parte, conduce a soluzioni estreme la poetica neorealistica del pedinamento della realtà mentre, dall'altra, nella sensibilità di movimento d'una macchina da presa guidata con la disinvoltura di un poeta che sperimenta le parole, sembra già superarla in vista di qualcosa di nuovo e diverso.
Nondimeno, al di là del succitato paradosso, la scelta neorealista di usare la macchina da presa come un'ombra che vede e marca stretti il protagonista e gli altri personaggi di Germania anno zero contribuì a consolidare alcune novità fondamentali, narrative e di rappresentazione, che, in quegli anni, rivoluzionarono gli schemi classici, soprattutto hollywoodiani, di diegesi e messa in scena: in tal senso, il neorealismo italiano - e, nello specifico, quello rosselliniano di Germania anno zero - ha fatto da fondamenta al cinema moderno e, assieme, ha istituito la nozione di autore così come è stata intesa dalle generazioni artistiche del dopoguerra.
Innanzitutto, la strategìa d'accompagnare, passo passo, la vita di un personaggio comportò conseguenze assolutamente notevoli soprattutto nei confronti d'una modalità narrativa, perseguita soprattutto dal cinema americano d'anteguerra, che amava costruire storie perfettamente calibrate, racchiuse in esposizioni serrate, ove ogni sviluppo e passaggio del racconto erano non solo studiati a tavolino e riversati in sceneggiature di ferro ma anche, e soprattutto, costituivano, negli esempi meglio riusciti, parte metonimica di un tutto organico che, appunto, era la narrazione. Adesso, scegliere di incollarsi al personaggio e seguirlo nei suoi percorsi anche marginali significava conferire al personaggio stesso, e non più allo sceneggiatore, il compito di portare avanti la storia. In altri termini, il cinema di Rossellini si apre, così, e in primo luogo, alla poetica dei tempi morti - momenti in cui, dal punto di vista dell'azione pura e semplice, il profilmico sembra riempirsi di cose inutili e senza significato: sono le lunghe camminate di Edmund, il suo girovagare senza sosta e senza senso. In realtà, i tempi morti di Germania anno zero sono sempre carichi di senso e lo esprimono, direttamente, al suo livello più alto e ineffabile, quello della pluralità delle emozioni e degli affetti. I tempi morti rosselliniani, insomma, attengono, soprattutto, la rappresentazione - sempre polimorfa ed enigmatica - dei sentimenti e delle affezioni. In questo modo, però, ciò che viene a cadere è, per l'appunto, l'impianto narrativo classico, fatto di azioni e reazioni alle azioni; qua, invece, ci si sofferma a cogliere i momenti in cui l'azione si blocca e trasuda emozione, dentro un ritmo allungato che, oramai, assegna alle pause e alle sospensioni il compito precipuo della costruzione del senso. Svolta epocale, e non solo per le novità pertinenti la rappresentazione del tempo, ma anche perché le inquadrature che si concentrano a ritrarre le code d'un'azione o i momenti di sospensione d'una vita, in realtà, inaugurano persino un nuovo concetto di rappresentazione spaziale o, per meglio dire, di fuoricampo, che, in modo massimamente evocativo, raccoglie adesso, nel suo non visto, tutti quei sensi debordanti che l'inquadratura del profilmico non riesce a trattenere. Ci troviamo, allora, nell'ambito non più della narrazione pura e semplice ma in quello d'una sorta di poesia narrativa espressa in termini cinematografici; poesia che, allora, diviene il mezzo attraverso cui la narrativa classica viene messa in discussione per poter inseguire, più liberamente, la realtà o, meglio, l'indeterminatezza di senso della realtà. Rossellini, insomma, in Germania anno zero, più che come narratore si presenta nelle vesti di un poeta osservatore che coglie la realtà così com'è, immersa nel suo spazio e nel suo tempo, e la ritrae fedelmente, senza precostruzione di codice; per il neorealismo, infatti, solo nella rappresentazione il più possibile conforme la realtà si trasforma in arte, in virtù, per l'appunto, di quella verità di rappresentazione che - se tende davvero alla completezza, all'esaustività e si fa il più possibile libera dall'ipoteca delle interpretazioni narrative - può garantire quella deriva del senso che è poi la realtà della realtà. Rossellini, così, arriva al cuore del reale semplicemente permettendo ai suoi personaggi di muoversi liberamente, nello spazio e nel tempo, senza ordini di sceneggiatura troppo vincolanti; tecnicamente, per Rossellini, tutto ciò significa seguire, con la macchina da presa, il percorso concreto dei personaggi nella vita quotidiana; significa tallonarli fisicamente, non perderli (quasi) mai di vista, cosicché, alla fine, da questo doppio percorso del personaggio e della macchina-ombra, scaturisca la realtà polisenso dell'affettività reale degli uomini raccontati; in tal modo, Rossellini finisce per disegnare tragitti spirituali, che si dipanano dentro situazioni concrete e non artefatte - non a caso, non ci sono scenografie nelle opere neorealiste del nostro e, tanto meno, in Germania anno zero. Il realismo rosselliniano, dunque, è realismo poetico, che nasce dalla volontà di riprendere la realtà nel suo autonomo farsi. Ne consegue, allora, che il principio di composizione delle opere di Rossellini e, nello specifico, di Germania anno zero è - ancora un paradosso! - un'idea che viene da molto lontano, che era stata codificata, in qualche modo, dal Teatro Comico della Commedia dell'Arte: questa idea si chiama improvvisazione. Rossellini, insomma, lascia fare, in buona parte, ai suoi personaggi, li guarda vivere, per dar conto, appunto, della loro vita reale e della moralità profonda e per cogliere l'evoluzione dello spirito nel suo farsi.
Ma si osservi ancora meglio. I personaggi di Germania anno zero vivono questa sorta di vita autonoma immersi in uno spazio che, come abbiamo detto, si costruisce per linee prettamente orizzontali e indifferenziate e casuali, a costruire itinerari dentro una città che non è più riconoscibile e che ha perso, oramai, ogni punto di riferimento. Certo, all'origine di questa rappresentazione spaziale disorganica e dispersiva c'è la Storia, e la riduzione a macerie delle grandi città europee bombardate a tappeto durante la seconda guerra mondiale; e, in tal senso, Berlino non poteva presentarsi se non così devastata e frammentaria agli occhi del Rossellini del '47. Eppure, questa tendenza alla costruzione di spazi-città labirinto e, comunque, di luoghi segnati dall'indifferenziazione interna e dall'emergenza di spazi qualsiasi, ove sono assenti i concetti di riconoscibilità e referenzialità che, invece, avevano funzionato da norme regolatrici della rappresentazione spaziale nella narrativa classica, sarà, per l'appunto, un cardine del racconto contemporaneo e la si ritrova, ancora oggi, nella raffigurazione, cinematografica o letteraria, di luoghi, città e agglomerati all'interno dei quali tutto assomiglia a tutto e niente sembra possedere qualità individuali che sollevino la rappresentazione spaziale al di sopra d'una sostanziale inespressività.
Ma, allora, se mettiamo assieme, nell'analisi di Germania anno zero, da una parte la constatazione che la realtà rappresentata è una realtà in fieri, che diviene e si fa grazie al divenire e al farsi, ambedue imprevedibili, dell'esperienza, fisica ed emotiva, dei personaggi liberi di improvvisare e, dall'altra, il rilievo dell'esistenza di uno spazio oramai destrutturato e privo di riferimenti, all'interno del quale i personaggi non possono muoversi se non alla cieca, non possiamo non giungere alla conclusione che il film di Rossellini sembra inaugurare o, comunque, consolidare, un cinema fondato sull'anti-narrazione. In tal senso, il racconto di Germania anno zero e, più in generale, questo nuovo modello del raccontare ci appaiono saturi di modernità, anzi, sono, tout court, il racconto della modernità, il racconto che non racconta, il racconto che respira e vive, il racconto che percorre quasi casualmente lo spazio e che si compie mentre viene raccontato. E, attraverso questo raccontare improvvisando, Rossellini persegue il suo personale ideale di realismo che, per l'appunto, è il realismo della realtà in movimento, carica di un'infinita potenzialità di senso. Da questo punto di vista, l'ultimo quarto d'ora del film - la passeggiata solitaria di Edmund tra i resti della città smantellata, la visita quasi ludica al palazzo diroccato e disfatto fronteggiante la propria abitazione e l'epilogo tragico del suicidio in caduta libera verso il selciato - è un vero e proprio manifesto di poetica. A cosa pensa Edmund mentre gira per Berlino? E cosa vede, nella sua immaginazione, mentre saltella tra i sassi e scivola tra i piani sventrati del palazzo? E, soprattutto, quali sono le sue emozioni, e da cosa è investita la sua affettività, durante questo percorso di vita interiore che la macchina di Rossellini ci descrive con ostinato pudore e opaca nitidezza? Mille sono le cose che attraversano Edmund e mille pensieri e sentimenti affollano l'intelligenza e la sensibilità di noi spettatori, finalmente partecipi di un estremo atto di vita che produce, alfine, la morte, a testimonianza della polisemia intrinseca e ineluttabile del reale. Nell'accettazione e nello sforzo di rappresentare con rispetto e interesse la deriva del senso che è intrinseca alla realtà sta, come detto, la ragione ultima per cui il narrare rosselliniano si fa poesia della visione.
Proprio per le attitudini più poetiche che narrative, il Rossellini di Germania anno zero non è affatto interessato - benché alla sceneggiatura collaborino tre grandi narratori, quali Sergio Amidei, tra i maggiori scrittori per il cinema dell'epoca, il futuro regista Carlo Lizzani e il romanziere francese Max Colpet - a costruire personaggi a tutto tondo; anzi, quelle del film sono, quale più quale meno, personae incompiute, personaggi in fondo misteriosi, perché nessuno è studiato nella sua completezza di carattere ma - ancora - è soggetto che si muove autonomamente nella realtà ed è perciò ricco di quelle indeterminazioni e ambiguità che caratterizzano, per l'appunto, gli uomini - che, sempre, sembra dirci Rossellini, navigano a vista. Il padre di Edmund: non si sa di cosa è malato, se è stato nazista convinto, se davvero soffre per la situazione dei figli e se, nella sua esperienza di uomo al limite dell'infermità, le parole e le azioni di lui sono dettate da altruismo, o da spirito di conservazione, oppure da egoismo. La sorella Eva: è un angelo oppure una prostituta? È davvero consapevole delle enormi difficoltà oppure è semplicemente sprovveduta e poco intelligente? Il fratello Karl-Heinz: è vigliacco oppure disperato, si sente offeso dal mondo nella sua alterigia di ex valente soldato o è nulla più che un bieco opportunista? Rademäcker: è un profittatore oppure si difende per come può? E il maestro è uno speculatore, un emarginato oppure un pedofilo? I ragazzi che Edmund incontra nel suo peregrinare sono simboli di una purezza che si sporca le mani per sopravvivere oppure sono il marciume che cresce? E lo stesso Edmund è davvero un bambino premuroso o, invece, è l'assassino in erba? L'indeterminatezza rende i personaggi più veri, sfaccettati e concreti, risonanti, per l'appunto, d'una qualità multiforme che li fa polimorfi e colmi di senso esuberante, e cioè, nell'ottica rosselliniana, individui reali e, quindi, poetici.
Ma un film non può certo essere realtà tout court - nessun film può esserlo: se non nei sogni pasoliniani di Empirismo eretico o nelle dichiarazioni di intenti del Cinema-verité o, ancora, nelle sperimentazioni avanguardistiche di Andy Wahrol, che, nel suo Sleep, una ventina d'anni dopo Germania anno zero, riprodurrà, in stretta osservanza del principio aristotelico dell'unità di tempo, le ore di sonno di un uomo dormiente. Ogni film, anche quello meno costruito in ambito di sceneggiatura, è destinato a farsi carico - soprattutto nella fase postproduttiva del montaggio - di crasi narrative più o meno nette, di parallelismi e contrasti interni alla narrazione e di simbologìe più o meno pertinenti: cioè, dei suoi modi narrativi. Quel che esce dalla porta, in qualche modo, è destinato a rientrare dalla finestra. È così è anche per Germania anno zero.
Le crasi narrative dell'opera di Rossellini aiutano l'analista e lo spettatore a costruire quella classica divisione in sequenze che corrisponde, grosso modo, a ciò che è rappresentato dalle cesure che separano i capitoli di un romanzo. In Germania anno zero, ad occhio e croce, si possono individuare otto macro sequenze. Nella prima, che serve a introdurre il quadro di partenza, si tratteggia brevemente un mondo disperato e poi si fa la conoscenza di Edmund, che lavora a scavare le fosse al cimitero, però da clandestino - non ha ancora quindici anni -, e perciò viene cacciato. Nella seconda, si viene a conoscenza della situazione familiare, si entra nella casa degli sfollati e si tocca con mano il disagio della convivenza forzata. Dalla terza, cominciano i pellegrinaggi di Edmund nel caos di Berlino, volti a racimolare beni utili alla sopravvivenza: questa sequenza serve anche a introdurre prima il personaggio del maestro e poi il gruppo dei ragazzi di strada, dediti ad una sorta di microattività delinquenziale; nell'ambito di tale segmento narrativo, si vedrà Edmund passare la notte andando a zonzo tra le rovine d'una città senza più mète, laddove l'andare a zonzo, ancora, è una figura retorica particolarmente frequentata da tutta la narrativa contemporanea. La quarta sequenza è quella del ricovero del padre in ospedale, sollievo triste ma autentico per chi vive la vita confrontando, tutti i giorni, il numero delle bocche da sfamare con quello delle patate da mettere in pentola. Nella quinta sequenza si assiste al ritorno del padre e, quindi, al ripresentarsi, aggravate da altre ristrettezze e umiliazioni, delle difficoltà di sussistenza che rendono oramai quasi impossibile la vita della famiglia di Edmund. Il culmine della sesta sequenza è rappresentato dall'uccisione del padre da parte del figlio, atto estremo che è lo srotolarsi in azione d'una serie di input raccolti da Edmund nell'ambito di un tessuto sociale ormai sconnesso, che ha saputo soltanto suggerire - per bocca del padre stesso, di Rademäcker e, soprattutto, del maestro - la scorciatoia logica per cui i deboli devono essere soppressi. Nella settima e penultima sequenza, Edmund compie il suo vagabondaggio finale, alla ricerca di senso dentro una città senza senso, e si scontra con le ennesime delusioni - il rifiuto dei ragazzi di strada che lo trattano da moccioso, l'emarginazione patita dai bambini che giocano a pallone, il voltafaccia del maestro - recuperando, però, almeno per qualche attimo, il sapore dell'infanzia perduta - vediamo Edmund saltellare e giocare tra le macerie e scoprire spazi nuovi con gli occhi finalmente curiosi del bambino. Infine, ottava ed ultima sequenza, il suicidio finale.
Ci sono poi i parallelismi e i contrasti, anch'essi interessanti. All'inizio del film, Edmund scava le fosse e, a metà della narrazione, assassina il padre, come se la prima azione fosse propedeutica alla seconda. Per contrasto, Edmund, per quasi tutto il film, appare derubato dell'infanzia, finché, come detto, non la ritrova, seppure in tragica provvisorietà, nei minuti finali. Ancora: alla disperazione di un nucleo di persone raccolte in gruppo - gli sfollati - fa eco la disperazione di un eroe solitario, seppur negativo, quale è il maestro. Poi: l'orizzontalità della vita senza infanzia di Edmund si oppone, ancora nei minuti finali, al vertiginoso recupero d'una verticalità finalmente sperimentata nei passaggi tra un piano e l'altro del palazzo vuoto e sventrato che, certo, è l'ultima dimora di Edmund prima del suicidio ma è pur sempre il luogo - l'unico luogo - ove è consentito muoversi per puro e disinteressato spirito ludico. Infine: alla morte del padre - la vecchiaia d'una generazione che ha sperperato la giovinezza nell'errore del nazismo - corrisponde la morte del figlio - l'adolescenza che porta sulle spalle la tragedia del Terzo Reich -, quasi a dire che non c'è salvezza fuori da un mondo che non riesca a recuperare l'innocenza d'un'infanzia anche storica e di massa.
Le simbologie sono poche ma assai performanti. In una parte della terza sequenza, quando Edmund vende, per conto del maestro, un vecchio disco del Führer ad alcuni ufficiali americani, esplode improvvisa la voce di Hitler, sparata a tutto volume, come un'ipoteca indelebile, sulle case e le macerie, ed è simbologia di morte. I tre tamburi che, in molte sequenze, introducono la musica di Renzo Rossellini segnano, ancora, alcuni tra i momenti più disperati della vita di Edmund, compresi l'omicidio del padre e il suicidio finale. Ma quell'organo che, poco prima dell'ultimo viaggio del protagonista, risuona dalla Chiesa e fa soffermare gli astanti che passano per via e blocca Edmund in ascolto dentro una bellissima inquadratura dall'alto verso il basso rappresenta, finalmente, un messaggio di speranza, racchiuso in un'immagine visivo/sonora dominata - di nuovo - dalla verticalità, icona avulsa, e puramente simbolica, di un istinto di vita che, in qualche modo, dovrà pur ripresentarsi alla fine di un percorso di morte e distruzione.