La maledizione delle scarpe
Sun-jae è un'ex donna in carriera che ha sacrificato la professione di medico per dedicarsi totalmente alla sua famiglia, in particolare alla figlia di sei anni Tae-soo. L'improvvisa scoperta del marito a letto con un'amante mette fine alla sua illusione familiare e la fa decidere di trasferirsi con la sua bambina in uno squallido appartamento ad uso ufficio nella periferia di Seoul, dove conta di riaprire la sua precedente attività. Ma nel frattempo misteriosi eventi causati da un paio di scarpe rosse trovate sulla metropolitana mettono a repentaglio la vita della sua bambina e coinvolgono anche l'arredatore del suo ufficio in restaurazione. Gli eventi precipitano ed i colpi di scena si susseguono fino alla tragica rivelazione finale.
La prima domanda che viene da porsi prima, dopo e soprattutto durante la visione di The Red Shoes è la seguente: perché in un mercato florido (per quanto in una fase controversa) e non privo di titoli interessanti come quello coreano, si pensa che sia fruttuoso distribuire ancora l'ennesima anonima ghost story sconclusionata e derivativa? Forse perché si percepisce anche senza guardarla con attenzione che è stata scritta e prodotta per il mercato occidentale, scomodando addirittura la celebre fiaba danese di Hans Christian Andersen da cui deriva la storia? Peccato che manchi del tutto la sostanza. D'altronde le storie orientali d'oltretomba di livello, diciamocelo, si contano sul palmo di una mano, e la media del genere è così qualitativamente bassa da lasciare spesso sorpresi dalla pochezza di questi film. Facile intuire da quanto detto che The Red Shoes non rappresenta assolutamente un'eccezione. Banale la messa in scena, insopportabile il solito "montaggio paura", inascoltabile la traccia sonora, assolutamente ridicola la sceneggiatura che annaspa paurosamente prima di una conclusione dalla pretestuosità quasi inammissibile. Neanche ci fosse qualche sprazzo di classe, niente. Le suggestioni visive più inquietanti sono quelle che vengono da lontano, ovvero un paio di richiami al Dario Argento dei tempi passati (l'inquadratura dell'incipit e l'omicidio tra i vetri) e qualche scopiazzatura al cinema di Nakata (Dark Water soprattutto, ma anche il solito Ringu), per il resto Kim Yong-Gyun non sembra proprio essere il talento che dipingono. Forse non è la sua storia, forse è troppo condizionato.
Che dire ancora. Se proprio vi piacciono spaventi telefonati e ingiustificati, luci intermittenti, rumori disturbanti, bambine insopportabili, capellone riflesse dai vetri della metropolitana e tutto l'armamentario decorativo del genere, magari quest'accozzaglia più truculenta della media dei prodotti del genere farà al caso vostro. Se invece credete che l'horror necessiti ancora di una storia che stia in piedi, una regia e un po' di lavoro sulla tensione, allora tenetevene alla larga.